Non sono clochard e non hanno l’aspetto da “barboni”, sono persone come me e come te quelle che incontro alla mensa solidale, che cercano sì un pasto caldo, l’alimento necessario per sostenersi, ma forse prima di tutto cercano di stabilire un contatto, un ponte col mondo esterno per non rinchiudersi nella solitudine.
Chissà che storie hanno alle spalle, quante porte in faccia hanno ricevuto, quante delusioni, amarezze, difficoltà spesso insormontabili dalle quali non sono più riusciti a uscire. Quel tunnel in cui magari non ti accorgi di essere entrato, basta la perdita di quel lavoro capitato così all’improvviso, o quella separazione che ti ha distrutto dentro, o quella malattia che di fatto ti ha escluso dal mondo che produce… Ci entri in quel tunnel, cerchi disperatamente vie di uscita, speri in un domani migliore, ma spesso il giorno dopo è uguale all’oggi: e così poco a poco ti chiudi in te stesso, ti isoli, cerchi un angolino del mondo dove rintanarsi…
Li chiamano i nuovi poveri: persone che fino a poco tempo prima avevano una vita normale, un lavoro, una famiglia, e che invece si trovano all’improvviso bisognosi di tutto, ma soprattutto di relazioni, di rapporti umani, di affetti. L’essere seduti a quel tavolo, insieme a altre persone, è allora per ciascuno di loro una opportunità per riassaporare la vicinanza dell’altro, il calore di un ambiente che fa un po’ famiglia, perché, a contatto di gomito e con davanti un piatto di pasta, è più facile fare anche due chiacchiere, raccontarsi di se, aprire il proprio libro dei ricordi. Non siamo in un freddo self-service, dove ci si serve, si consuma e si ha fretta di andare via. Il clima, lo vedi subito, è semplice, ma amichevole, famigliare, si parla anche del più e del meno, ma si parla, si comunica all’altro.
Così, basta avvicinarsi ed è immediato entrare in quel mondo privato; cerco di non sembrare invadente, quasi in punta di piedi, con delicatezza, ma con spontaneità. “Quando avevo 20 anni, mi dice R., anch’io facevo il volontario nella Croce Rossa, erano altri tempi non si avevano neanche le divise, i mezzi erano scarsi, ma mi sono trovato bene”. C’è anche chi come F. monopolizza un po’ la conversazione e parla un po’ a ruota libera, dalla politica, alle donne al modo di cucinare i cibi, ma è utilissimo per rompere un po’ il ghiaccio di chi non conosce nessuno e si mette un po’ in disparte. Scopri anche aspetti inediti e inaspettati: G. mi parla degli strumenti musicali che suona ogni tanto e dei locali in cui andava a fare le serate con la band. “Li conosco tutti da qui a Bergamo, sai quante volte ci sono stato…” Qualcuno mi parla dei suoi problemi, ma è come lo facesse per farti sentir parte delle sue ansie e avesse bisogno solo di qualcuno che ti ascolta. Allora io non sono quello che è dall’altra parte della scrivania, quello che magari distrattamente compila una scheda, l’ultima della serie, con l’elenco dei suoi guai: mi accorgo invece che quando sono lì, senza guardare l’orologio, e fisso gli occhi del mio interlocutore, in quel momento sto facendo la cosa più importante per lui, lo sto ascoltando, ed è lui che mi invita a far parte del suo mondo, io non devo far altro che seguirlo.
E’ bello anche percepire la disponibilità e l’accoglienza degli altri volontari: mi stupisco di quanto anche un semplice sorriso, un “buongiorno” detto con calore, possa far bene, e pensare che non costa niente ( ma perché non lo faccio un po’ più spesso, mi chiedo…). In un mondo in cui c’è tanto grigiore, tanta indifferenza e tanto egoismo, accorgersi che qualcuno, attorno a me, ha tempo per mettersi a servizio dell’altro, di uno che non conosce e lo fa con il cuore aperto con passione, è un vero e proprio balsamo per il tuo io, qualcosa che ti riconcilia col mondo. Certo c’è la consapevolezza che per queste persone che incontro i problemi e le difficoltà rimangono tutti, non scompaiono come per magia: forse però da oggi per molti di loro almeno il tempo del pranzo è un momento piacevole, un fare il pieno di energia per il corpo e per lo spirito. Vito Bellofatto