«Padre, faccio molta fatica a venire a confessarmi…», «Mi faccia qualche domanda, non so cosa dire…», «Non ho niente da dire perché non faccio niente di male…», «ho pochi peccati, ma non sono un buon cristiano…»: non c’è dubbio che il sacramento della confessione – meglio Penitenza, meglio ancora Riconciliazione – non sia il più gradito.
Forse per l’educazione che abbiamo ricevuto e che trasmettiamo ai figli e ai nipoti: lo scrupolo di dire noi qualcosa o di ricordare tutto (come si fa, quando ci si confessa a distanza di mesi o di anni?), in una sorta di competizione tra il bisogno di sentirsi ripuliti da ciò che riteniamo male e l’affermazione di una sostanziale perfezione. O forse per la difficoltà a rientrare in noi stessi e riconoscere la nostra verità profonda, che non ignora limiti e debolezze, ma sa pure vedere talenti e capacità: se nell’esame di coscienza troviamo delle ombre è perché certamente ci sono anche delle luci.
Ma la sfida vera è sul protagonista del sacramento: se siamo noi, tutto si fonderà sul nostro dire bene o male, tutto o niente, di noi stessi. Ma ogni sacramento è sorprendente opera di Dio: quando non abbiamo il pane per l’Eucaristia o l’acqua per il Battesimo o l’amore per il Matrimonio, possiamo portare a Dio i nostri peccati. Lui sa vederli e trasformarli come noi non ci aspetteremmo. Questo è perdono e riconciliazione: un abbraccio benedicente.
Auguri ai nostri ragazzi che in queste settimane celebrano la loro
don Gianni