La parabola del buon Samaritano è spesso ridotta a un invito generico di Gesù ad avere compassione per chi ha bisogno. Ma l’insegnamento di Gesù è molto più profondo: il contesto ed i personaggi non sono casuali.
A Gesù non piacciono i discorsi sterili. I suoi discepoli non devono essere gente d’accademia, ma gente che sa amare Dio e il prossimo, unendo i due comandamenti, perché l’uno è prova dall’altro.
Purtroppo, non è sempre così: il sacerdote ed il levita, le persone più vicine a Dio per il culto, non si fermano. Il modello della carità è, invece, un samaritano, ritenuto un impuro per razza e per fede. Spesso nel Vangelo si fa notare che chi ha più fede o è più disponibile al Signore, non appartiene al popolo eletto, ma è tra i lontani.
Gesù vuole uno stile particolare. Alla domanda chi è il mio prossimo, Gesù non risponde con un elenco di persone da amare, ma ricorda che prossimo è la persona che vuole amare: prossimo va inteso non in senso passivo, ma attivo.
Dovremmo ricordare quanto insegnava il Card. Martini quando metteva in guardia da tre pericoli facile nell’amore verso gli altri: la fretta, la paura di essere sempre più coinvolti nel dono di sé, l’alibi e la delega: ci sono altre cose da fare, non siamo capaci e, quindi, deleghiamo la Caritas…
C’è infine una lettura ancora più profonda della parabola. Il vero samaritano è il Signore: ha compassione; si fa uno di noi per guarirci dal peccato, fino a diventare nell’Eucarestia pane spezzato per noi.