C’è una certa smania di uscire dall’emergenza. I super ottimisti si spingono a dire che “ormai” è superata. I super pessimisti, più paurosi che prudenti, si spingono ad affermare che “ormai” tutto è allo sfascio, specialmente in Italia. Non conta che la ferita sia di destra o di sinistra, che provenga da chi il virus l’ha attraversato o da chi è riuscito a proteggersi: ci sono cicatrici interiori che colpiscono più dei rimasugli, talvolta pesanti, della malattia.
Un uomo generalmente ottimista e sorridente, il card. Gianfranco Ravasi, si esprime così: «La sberla presa con questo virus non è servita a molto. Non abbiamo imparato la lezione e non vedo un ritorno alle interrogazioni di fondo. Piuttosto, siamo di nuovo alla banalizzazione». E sulla “resilienza” aggiunge: «bisogna intendersi sul significato. Vuol dire balzo in avanti, desiderio di miglioramento; quel che non vedo: si è tornati alla gestione ordinaria delle nostre vite».
Per quest’ultima affermazione forse il cardinale non condividerebbe l’immagine delle cicatrici. Ma forse siamo noi a non volerle vedere, benché producano una bella quota di sofferenza interiore, causa di diffuso individualismo e nervosismo, di incapacità a costruire autentici sentieri di comunità con mete condivise, di attesa di una normalità che non potrà mai replicare il passato – non foss’altro per chi non è più tra noi – e dell’idea di avere perso tempo prezioso della nostra vita. Perdere o guadagnare dipende da noi, non dalle cose. E le cicatrici sono memoria di una prova che non possiamo mettere sotto silenzio, soprattutto se oltre al corpo ha colpito l’anima.
don Gianni
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