Nel giorno anniversario della morte di suor Lucia Pulici, la Saveriana originaria di San Giorgio uccisa a Kamenge (Burundi) il 7 settembre 2014, un’altra anziana religiosa, suor Maria De Coppi, missionaria Comboniana, veneta, è morta in un assalto alla missione di Chipene in Mozambico. Poche settimane fa ricordavamo Luisa Dell’Orto, la piccola sorella del Vangelo di Charles de Foucauld, nativa di Lomagna, assassinata il 25 giugno ad Haiti. Le motivazioni di queste uccisioni sono differenti e nel caso di suor Maria c’è anche una rivendicazione della jihad locale, che accusa suor Maria di essere troppo convinta: «L’abbiamo uccisa perché era impegnata eccessivamente nella diffusione del cristianesimo».
“Eccessivamente”, certo: sessant’anni a servizio della missione, in situazioni che possiamo immaginare. Anche il nord del Mozambico è tra le zone più povere del pianeta, dove per le chiese l’annuncio del Vangelo si intreccia inevitabilmente con opere di promozione umana, specialmente in campo educativo e sanitario. È Vangelo vissuto, amore per il prossimo, ma non “proselitismo”.
In queste occasioni stupore e rabbia si fanno compagnia. Finché ci si ricorda un aspetto che da cristiani non va dimenticato: seguire il Signore Gesù è farsi discepoli di un Crocifisso, condannato innocente a un supplizio insopportabile. Ogni battezzato è chiamato a vivere una “vita già donata” (così pensavano i monaci martiri nel 1996 a Tibhirine in Algeria): senza necessariamente giungere al sacrificio supremo, essere almeno perseveranti nella quotidianità.
L’immagine che lega le letture della liturgia di oggi è quella della vigna: il popolo di Israele è la “vigna” scelta ed amata dal Signore, che non dà i frutti sperati; la vigna è il Regno di Dio a cui tutti siamo chiamati a lavorare e che richiede la nostra risposta. La vigna è un dono, è una scelta d’amore gratuito di Dio che, però, esige di essere accolto, fatto fruttificare. Quindi non interessa per la salvezza se siamo figli di Abramo o cristiani, se conosciamo bene il Vangelo o sappiamo parlare bene.
Quello che interessa sono le nostre scelte quotidiane più o meno coerenti al Vangelo. Se Gesù avesse narrato questa parabola al giorno d’oggi, dice un commentatore, probabilmente avrebbe parlato non solo di due figli, ma di ben quattro. Un terzo figlio, alla proposta del Padre di lavorare nella vigna, avrebbe chiesto tempo, un confronto a tavolino, uno studio della situazione, un dossier sulla vigna, magari lamentandosi del degrado di essa e poi, forse, non sarebbe neppure passato all’azione. Sono così certi cristiani che con la scusa che la Chiesa non è quella che dovrebbe essere, non si sporcano mai le mani per cambiarla. Il quarto figlio, infine, sarebbe quello che non dice neppure di sì. Nel silenzio ascolta il Padre e, nel nascondimento, lavora, assomigliando a Gesù che si è incarnato, si è spogliato della sua divinità, si è fatto uno di noi vivendo per 30 anni una vita normale di famiglia e di lavoro.
Come la gente umile, senza pretese, senza etichette, che nel silenzio, assiste anziani, malati, che evangelizza con la sua testimonianza. Dovremmo tutti appartenere a quest’ultima categoria.
Il 17 settembre entrerà nel protomonastero di Santa Chiara, ad Assisi, la sangiorgina Chiara Galbiati.
Una vocazione così grande dalla comunità più piccola della città: è quella della 36enne di San Giorgio Chiara Galbiati, instancabile educatrice dell’oratorio “oltre il ponte” che entrerà nel monastero di clausura.
Sabato 2 settembre è stata celebrata la Messa alla quale hanno partecipato tanti amici, parenti, ma anche figure come don Renato Bacchetta, don Giuseppe Maggioni e don Giacomo Trevisan che hanno fatto parte della vita di Chiara e della comunità desiana in questi anni e che ora sono stati destinati in altri luoghi. Presente anche il prevosto, don Gianni, i diaconi Fabrizio Santantonio e Stefano Orfei, don Alberto Barlassina, don Marco Albertoni e don Pietro Cibra.
“Grazie Chiara per averci convocato stasera – ha esordito subito il prevosto – Lo spettacolo che mi si prospetta davanti è di un variegato gruppo che esprime lo stare insieme di Gesù, di una comunità che si sente orgogliosa di vedere una vocazione così, monastica e claustrale”.
Il cammino di discernimento di Chiara è stato lungo, ma l’ha portata a comprendere come la sua via fosse quella nel protomonastero di Santa Chiara ad Assisi. Ha predicato durante l’omelia un emozionato don Giuseppe, che ha detto: “Tu Chiara ci hai convocati per l’incontro con Gesù perché ti ha toccata realmente, ti ha parlato molto e con i tuoi gesti ci stai dicendo di seguire Gesù incondizionatamente. Non contano le parole in questo caso, ma la testimonianza di vita che ci stai dando. Così facendo ci richiami a fissare lo sguardo su di Lui. Non andrai in un convento che non ti chiude, che ti toglie libertà, ma anzi, al contrario, che ti aprirà uno sguardo grande. Cara Chiara, per quello che ti conosco, sei una persona che ha sempre cercato la bellezza e la pienezza della vita. Per te una volta là sarà tutto nuovo, ma lo è nuovo solo per il contesto, non è nuovo l’Amore che ti accompagna, sai che la santità di vita è gioia, vita e amore. Per noi che rimaniamo a casa siamo chiamati a custodire la bellezza di Gesù nei nostri giorni. Ci insegni che la pienezza è andare in profondità con uno sguardo che riesce a cambiare il mondo. Si sa che solo chi lascia qualcosa conosce la bellezza di qualcosa di nuovo e grande.
È stupefacente che dalla più piccola comunità della città il Signore faccia cose così grandi”. Si è aggiunto anche il ringraziamento a nome della comunità di Valeriana Galimberti, ausiliaria diocesana a San Giorgio: “La comunità prega per te Chiara. Grazie per la tua scelta e la tua testimonianza e buon cammino”. È seguito un rinfresco per tutti i presenti. Dei parrocchiani andranno anche a presenziare all’ingresso di chiara al monastero di Assisi il 17 settembre dopo la Messa alle 7 di mattina.
È nato tutto per cercare di dare un piccolo contributo ai più bisognosi durante i mesi della pandemia. Oggi è diventato l’appuntamento fisso del Mercoledì dalla sig.ra Margherita (panificio Di Vara). È da lei infatti che mi reco una volta a settimana per ritirare ciò che non è stato venduto durante la giornata. Si tratta perlopiù di pane e brioches. Talvolta, quando si è più fortunati, anche di pizzette e focaccine. Con l’aiuto di Eleonora e Riccardo, lo portiamo al centro Caritas di San Giovanni Battista dove Guido e la sig.ra Lella ci attendono sempre puntuali. Sono loro infatti che ci aprono le porte della chiesa, dove disponiamo quanto recuperato poco prima in panificio. Gli stessi alimenti saranno distribuiti alle famiglie in difficoltà il giorno successivo. Personalmente, ritengo che si tratti di un gesto doppiamente utile: da una parte serve per ridurre gli sprechi alimentari, dall’altro dona un piccolo contributo alle persone più fragili. Pur nella sua semplicità, sappiamo che può fare la differenza per chi non può permettersi di avere il pane in tavola ogni giorno. Dopotutto, fare la carità è un atto d’amore verso il prossimo, nonché la nostra possibiltà di mettere in atto quanto scritto nei Vangeli. Come dice Papà Francesco: “Prendersi cura di una persona significa abbracciare tutta la sua condizione e aiutarla a liberarsi da ciò che più la opprime e nega i suoi diritti”. Anche se noi volontari non conosciamo direttamente le famiglie a cui è destinato questo servizio, vogliamo metterci in gioco per loro perché sappiamo che purtroppo, specialmente negli ultimi anni, c’è tanto bisogno. Non basterà forse per risolvere tutti i loro problemi, ma se solo servisse ad alleviare le loro fatiche, allora possiamo ritenerci soddisfatti. Desidero, dunque, ringraziare la Caritas per avermi dato questa possibilità. Estendo i ringraziamenti anche alla panetteria Di Vara e di nuovo alla sig.ra Margherita senza la quale tutti ciò non sarebbe possibile. In ultima istanza, vorrei lanciare un appello: se qualcuno volesse unirsi a noi è certamente ben accetto; sono molte le attività in cui la Caritas è attiva e le sfide lanciate dalla nostra società diventano sempre più complesse. Non resta che raccoglierle e scendere in campo. Talvolta, basta davvero poco: qualche sacco di pane e un paio di amici…
Frase molto semplice che spesso anche i grandi si ripetono. I ragazzi degli oratori della città l’hanno sentita pronunciare da Lucy, protagonista insieme ai suoi fratelli ne “Le cronache di Narnia”, durante la vacanzina a Spiazzi di Gromo, dal 16 al 24 luglio.
Insieme ai loro educatori, don Pietro, don Gianni, (suor) Barbara e qualche genitore, seguendo questa storia fantasy i ragazzi dalla 5^ elementare alla 3^ media hanno cercato di capire quali valori possono essere coltivati per ‘diventare grandi’, senza aspettare di diventare troppo grandi per capire quale importanza può avere l’amicizia, il coraggio, la fede ma anche lo smarrimento, il tradimento, la paura.
La domanda più ricorrente riguardo alla proposta estiva che ogni anno gli oratori propongono è “chissà cosa vivranno i ragazzi, chissà se torneranno con qualcosa in più nel cuore e nella testa?” Da genitore quante volte me la sono ripetuta, ma ad essere lì in vacanzina, con i ragazzi, ci si rende conto che qualcosa in più lo danno loro a noi. Dai più piccoli alle prese con i primi tentativi di un’autonomia fuori casa, ai più grandi alle prese con un’adolescenza che li vuole protagonisti di scelte e relazioni importanti, tutti (educatori compresi) sanno regalare uno sguardo sul mondo, sulle cose, sugli affetti e sulla fede che è in grado Aspettando il festival della missione a Milano 29 settembre – 2 ottobre di suscitare domande anche in noi adulti….basta saper ascoltare.
I nostri ragazzi, complicati e fragili per certi punti di vista, hanno in realtà delle belle risorse emotive. È stato interessante sentirli alle prese con domande sul sé e su quello che vivono; aiutati dagli educatori hanno avuto lo sprono e la volontà di andare un po’ oltre la superficie e lasciarsi toccare in profondità, facendo della vacanzina un tempo dedicato anche alla crescita e non solo allo svago.
Il mondo degli adulti è spesso fatto di cervellotici ragionamenti e ponderate scelte, ed invece in quella settimana ho assaporato lo slancio e la freschezza del lasciarsi un po’ andare, gustando il tempo e quello che sa regalare, dalla semplice chiaccherata al momento più impegnato dell’incontro formativo. I ragazzi in questo hanno da insegnare e vederli alle prese con il loro vivere, mette tenerezza e gioia.
Anche nella fatica del cammino mi hanno insegnato qualcosa: la capacità di lasciarsi condurre. Qualcuno per nulla abituato alla montagna stava dietro con me e don Gianni oppure con me e Alberto o Luigi o Giambattista; con passo lento ma costante, tra un incitamento e l’altro, si condividevano episodi vi vita quotidiana, gusti e preferenze, progetti futuri e preoccupazioni presenti, sogni: insomma, un pezzettino di vita.
Io, nel momento della fatica, mi lascerei condurre da un altro con la stessa spontaneità? Scambiando un pezzettino di vita?
Quel rallentare per arrivare tutti, e nel mentre riuscire ad incontrare l’altro, mi ha suscitato diversi interrogativi sulla frenesia quotidiana che spesso noi adulti, genitori e lavoratori, siamo costretti a subire.
Altra sorpresa (o conferma) è stata la passione ed il desiderio con cui gli educatori hanno cercato di affiancarsi ai ragazzi. Anche loro in crescita ed alle prese con un’identità ancora in formazione, mi hanno fatto vibrare il cuore con i loro tentativi di avvicinamento e conoscenza dei più piccoli, tentativi caratterizzati da tenerezza e affetto, tra una risata e un abbraccio, una consolazione ed una prima impronta di autorevolezza. Oppure la volontà dei più grandi di farsi amico, prossimo, confidente, consigliere, nella consapevolezza che quei pre-adolescenti non sono lì per caso, sono affidati anche a loro. E così davanti agli occhi di noi adulti si è dischiusa la meraviglia di chi vuol provare a farsi ‘prossimo’ di qualcun altro, vuole provare a capire cosa sia il voler bene cristiano, che nulla desidera in cambio, vuole provare a vivere sulla propria pelle quel “siete miei amici” che Gesù ripete ai discepoli.
Tentativi, certo, che ancora molta strada devono fare, ma comunque vivi, ardenti. Abbiamo una comunità composta da tanti bambini e ragazzi, belli nel loro volerci provare, più consapevoli e desiderosi di quello che immaginiamo, anche più bisognosi di riferimenti di quel che pensiamo: sapremo essere credili nel nostro esserci? Sapremo insinuare in loro le giuste domande, quelle che consentono di diventare adulti? Sapremo dare loro la giusta fiducia? La vacanzina a Spiazzi di Gromo è stato un bel primo passo, ora non resta che camminare.
Dal 29 settembre al 2 ottobre si terrà a Milano il festival della missione. E’ alla seconda edizione, la prima è stata fatta nel 2017 a Brescia. Ma i preparativi per questo festival sono iniziati nell’autunno 2021, coinvolgendo scuole, alcune università, Centri missionari, Istituti missionari, gruppi missionari, associazioni laiche di volontariato, alcune carceri e monasteri. Per tenervi aggiornati sui vari cambiamenti e i sui testimoni che parteciperanno potete iscrivervi al sito www.festivaldellamissione.it.
L’iscrizione è gratuita e necessaria per accedere ai convegni, presentazioni e spettacoli inoltre si avrà diritto a sconti e convenzioni (bar, ristoranti,musei ecc.), Bisogna accogliere chi parteciperà agli eventi e perciò si cercano alloggi, stanze, dormitori, sale, palestre, appartamenti disponibili a Milano o nelle vicinanze (se serviti da treni o metropolitana). Inoltre se si hanno più di 18 anni si può diventare volontari del Festival per i tanti compiti utili per aiutare lo svolgimento dell’evento. I luoghi dove si svolgeranno gli eventi saranno diversi: Duomo, Colonne di San Lorenzo, Basilica Sant’Eustorgio, casa circondariale San Vittore, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piazza Vetra, Museo Diocesano. Gli ospiti che parteciperanno ai vari incontri sono talmente tanti che vi suggerisco di vedere sul sito e saprete dove e quando poterli ascoltare e incontrare. Vi consiglio anche di crearvi un vostro programma personale perché le occasioni sono così tante e non so se si potrà partecipare a tutte, a meno che qualcuno di noi non abbia il dono dell’ubiquità. Vi chiederete perché si fa questo festival: per contribuire alla rigenerazione di un “nuovomondo” fondato sulla fratellanza e sulla cura del creato, per aiutare ognuno di noi ad essere attento a tutte le persone che la vita ci fa incontrare e renderci conto di come le nostre vite sono così intrecciate con gli altri e con il mondo e la natura. Vi suggerisco di leggere anche il mensile di agosto/settembre dei Missionari Saveriani che ha dedicato la pagina centrale proprio al Festival della missione. Lì troverete molte informazioni in merito e soprattutto vi invito a partecipare numerosi ad almeno una giornata del Festival, scegliendo i temi e i relatori che più vi piacciono. A presto e arrivederci al Festival.
Nei giorni scorsi molti hanno ricordato i dieci anni dalla morte del card. Carlo Maria Martini, (Gallarate, 31 agosto 2012). Martini era stato Arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002.
I più giovani, anche tra i preti, possono leggerne gli scritti o guardare qualche video, ma è difficile possano cogliere il clima del suo arrivo a Milano nel 1980: città e regione lottavano con proverbiale operosità per contrastare un terrorismo crudele che più volte le aveva ferite gravemente e che tuttora era una minaccia; una Chiesa molto organizzata, solida, ma anche poco calorosa, talvolta apparentemente immobile.
Ci si aspettava da lui un governo pastorale fatto di decisioni, cambiamenti, iniziative, ma cominciò entrando in città con il Vangelo in mano, commentandone alcuni passi.
Ci si aspettava una prima lettera pastorale programmatica, capace di dare una sveglia e rilanciare comunità con rinnovato impegno. Ma il suo primo testo si intitolò La dimensione contemplativa della vita: un richiamo a ciò che è più profondo nel cuore umano, là dove Dio stesso abita e parla, incoraggia e perdona, aprendo al valore infinito della persona e della sua libertà. Un osservatore afferma che Martini così spiazzava non solo i parroci e i buoni cattolici, abituati a una Chiesa delle opere, ma gli stessi esponenti laici, all’epoca chiusi nelle loro ideologie marxiste o liberali, e che pure avevano perso il senso della freschezza, della libertà.
In una immagine sintetica Martini definisce così l’essere umano: «aperto al mistero, paradossale promontorio sporgente sull’Assoluto, essere eccentrico e insoddisfatto, che soltanto in una incondizionata dedizione all’imprevedibile piano di Dio trova le condizioni per realizzare la propria autenticità».
E nell’invito a cercare in una Parola più profonda – quella di Dio – la propria verità, cita un prete poeta: «“La Parola zittì chiacchiere mie”: così Clemente Rebora, nobile spirito di poeta milanese dei nostri tempi, descrive con rude chiarezza gli inizi della sua conversione».
Dopo quarant’anni sono diversi gli stili di vita, le paure, i modi di comunicare, ma non l’inquietudine dell’uomo in ricerca, che risiede nel cuore di ognuno. Già lo scriveva S. Agostino: cor nostrum inquietum, donec requiescat in te (il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in te).
don Gianni
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