Categoria: Editoriali

  • Chi ci pensa?

    Chi ci pensa?

    Oggi nella diocesi di Milano e nella nostra città viviamo la festa di apertura degli Oratori.
    Per moltissimi di noi l’Oratorio è stata una seconda casa dove incontrarsi, giocare, fare sport o musica o teatro, soprattutto sperimentare le basi della fede cristiana, cioè vita comunitaria e preghiera.

    In un passato, magari anche recente, l’Oratorio assomigliava a un cortile, sempre aperto, con la presenza rassicurate di un sacerdote o di una suora, percepiti come fratello o sorella più grandi di età, ma vicini per condivisione del tempo, delle confidenze, delle attività.

    Oggi si arriva a leggere – la scorsa settimana in Italia Centrale – che un Oratorio viene chiuso perché non c’è nessun senso di appartenenza e può diventare luogo di sfogo di giovani, e talvolta anche adulti, maleducati, arroganti, minacciosi. Ci siamo arrivati tempo fa pure a Desio. Questo anche perché è difficile trovare figure educative qualificate e sufficienti per presidiare gli Oratori.

    Il pensiero però non deve andare all’oratorio, ma ai giovani e ai piccoli: chi pensa a loro? Soprattutto chi pensa al loro percorso interiore? Bastano le ore di scuola, di sport, di danza, di inglese ecc. a farne persone mature? E quando la considerazione di Dio presente nella vita e l’incontro con Gesù vengono proposti alla loro vita? Basta una striminzita – e non sempre frequentata – ora di catechesi settimanale?

    E, infine: bastano il prete, la suora, i catechisti, gli educatori, o è questione di un’intera comunità?

    don Gianni

  • Vita già donata

    Vita già donata

    Nel giorno anniversario della morte di suor Lucia Pulici, la Saveriana originaria di San Giorgio uccisa a Kamenge (Burundi) il 7 settembre 2014, un’altra anziana religiosa, suor Maria De Coppi, missionaria Comboniana, veneta, è morta in un assalto alla missione di Chipene in Mozambico.
    Poche settimane fa ricordavamo Luisa Dell’Orto, la piccola sorella del Vangelo di Charles de Foucauld, nativa di Lomagna, assassinata il 25 giugno ad Haiti. Le motivazioni di queste uccisioni sono differenti e nel caso di suor Maria c’è anche una rivendicazione della jihad locale, che accusa suor Maria di essere troppo convinta: «L’abbiamo uccisa perché era impegnata eccessivamente nella diffusione del cristianesimo».

    “Eccessivamente”, certo: sessant’anni a servizio della missione, in situazioni che possiamo
    immaginare. Anche il nord del Mozambico è tra le zone più povere del pianeta, dove per le chiese l’annuncio del Vangelo si intreccia inevitabilmente con opere di promozione umana, specialmente in campo educativo e sanitario. È Vangelo vissuto, amore per il prossimo, ma non
    “proselitismo”.

    In queste occasioni stupore e rabbia si fanno compagnia. Finché ci si ricorda un aspetto che da cristiani non va dimenticato: seguire il Signore Gesù è farsi discepoli di un Crocifisso, condannato innocente a un supplizio insopportabile. Ogni battezzato è chiamato a vivere una “vita già donata” (così pensavano i monaci martiri nel 1996 a Tibhirine in Algeria): senza necessariamente giungere al sacrificio supremo, essere almeno perseveranti nella quotidianità.

    don Gianni

  • DIMENSIONE CONTEMPLATIVA

    DIMENSIONE CONTEMPLATIVA

    Nei giorni scorsi molti hanno ricordato i dieci anni dalla morte del card. Carlo Maria
    Martini, (Gallarate, 31 agosto 2012). Martini era stato Arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002.

    I più giovani, anche tra i preti, possono leggerne gli scritti o guardare qualche video, ma è difficile possano cogliere il clima del suo arrivo a Milano nel 1980: città e regione lottavano con proverbiale operosità per contrastare un terrorismo crudele che più volte le aveva ferite gravemente e che tuttora era una minaccia; una Chiesa molto organizzata, solida, ma anche poco calorosa, talvolta apparentemente immobile.

    Ci si aspettava da lui un governo pastorale fatto di decisioni, cambiamenti, iniziative, ma cominciò entrando in città con il Vangelo in mano, commentandone alcuni passi.

    Ci si aspettava una prima lettera pastorale programmatica, capace di dare una sveglia e rilanciare comunità con rinnovato impegno. Ma il suo primo testo si intitolò La dimensione contemplativa della vita: un richiamo a ciò che è più profondo nel cuore umano, là dove Dio stesso abita e parla, incoraggia e perdona, aprendo al valore infinito della persona e della sua libertà. Un osservatore afferma che Martini così spiazzava non solo i parroci e i buoni cattolici, abituati a una Chiesa delle opere, ma gli stessi esponenti laici, all’epoca chiusi nelle loro ideologie marxiste o liberali, e che pure avevano perso il senso della freschezza, della libertà.

    In una immagine sintetica Martini definisce così l’essere umano: «aperto al mistero, paradossale promontorio sporgente sull’Assoluto, essere eccentrico e insoddisfatto, che soltanto in una incondizionata dedizione all’imprevedibile piano di Dio trova le condizioni per realizzare la propria autenticità».

    E nell’invito a cercare in una Parola più profonda – quella di Dio – la propria verità, cita un prete poeta: «“La Parola zittì chiacchiere mie”: così Clemente Rebora, nobile spirito di poeta milanese dei nostri tempi, descrive con rude chiarezza gli inizi della sua conversione».

    Dopo quarant’anni sono diversi gli stili di vita, le paure, i modi di comunicare, ma non l’inquietudine dell’uomo in ricerca, che risiede nel cuore di ognuno. Già lo scriveva S. Agostino: cor nostrum inquietum, donec requiescat in te (il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in te).

    don Gianni

  • La Messa, finalmente

    La Messa, finalmente

    Un collega che celebra la Messa immerso nel mare utilizzando un materassino come altare ha attirato l’attenzione di giornali e commentatori. E una Procura cerca l’ipotesi di reato, ma pare che il magistrato – oltre che contrastare la criminalità organizzata – sostenga il rito antico della Messa (un po’ come se un giudice juventino indagasse i tifosi del Torino per qualche insulto agli avversari). Il confratello giustamente si è pentito, ha chiesto scusa, e la cosa sarebbe potuta finire lì.

    In realtà l’evento ha scatenato una serie di riflessioni proprio sulla Messa, il rito caratteristico dei cristiani cattolici. Un gesto identitario, ma spesso tralasciato con le più varie motivazioni. Al punto che i cronisti ne confondono spesso i termini: “il diacono ha recitato la Messa”, “il prete ha officiato l’omelia” e via dicendo.

    Anche qualcuno dei cosiddetti praticanti potrebbe riflettere meglio sul modo di “praticare” la Messa e l’Eucaristia.

    Riporto quanto osserva il teologo Pierangelo Sequeri su Avvenire del 28 luglio scorso: «L’epoca della Messa sottocasa, programmata per riempire tutti gli orari e tutti gli spazi della chiesa, sta per congedarsi. Non sarà da sostituire con il servizio in camera. Il megaraduno dell’assemblea che riempie la chiesa o lo stadio diventerà più raro (e sperabilmente più genuino). La Messa diventerà certamente più preziosa. Il suo luogo sarà più prezioso; il suo tempo sarà più prezioso. Ci saranno più ospiti che fedeli, però: come del resto ai tempi di Gesù. E sarà bellissimo. Molti abbonati che ora fanno i difficili forse troveranno la cosa troppo scomoda, e perderanno la strada. Molti che non pensavano di avere un posto saranno stupiti ed emozionati di non essere più ‘quelli di fuori’, con Gesù che passa fra i tavoli. Certo, dovranno avere la delicatezza di indossare almeno il vestito della festa, visto che tutto il resto è gratis».

    Con i ragazzi alla vacanza in montagna abbiamo celebrato quasi quotidianamente, cantato, ascoltato la Parola, ricevuto la Comunione in uno spazio insolito (a fianco a un albergo accogliendo anche qualche ospite che si aggiungeva inatteso), ma con maggiore genuinità di ciò che accade nelle nostre chiese. Forse qualcuno poteva pensare: «La Messa, finalmente!». E perché non fare in modo di pensarlo e viverlo ogni domenica?

    don Gianni

  • «Una di più»

    «Una di più»

    «Perché questa violenza che sentiamo a volte pure in noi? Mi direte che sono un po’ folle. Perché restare qui ed esporsi al rischio? Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato. Potere contare su qualcuno è essenziale per vivere».

    Così scriveva a Pasqua suor Luisa Dall’Orto, la religiosa nativa di Lomagna missionaria in Haiti e uccisa a Port-au-Prince sabato 25 giugno scorso.

    Attualmente impegnata in un centro da lei fondato e chiamato Kay Chal, si dedicava ai bambini “di strada”, abbandonati e senza difese, altrimenti destinati a far parte delle innumerevoli bande di malavita organizzata che imperversano nel paese.

    Suor Luisa non era una sprovveduta: aveva due lauree e insegnava a tutti i livelli, compresi quello universitario e del Seminario. La sua spiritualità si rifaceva a Charles De Foucauld, il fratello universale proclamato santo lo scorso 15 maggio. La sua esperienza l’aveva già portata a vivere per lungo tempo in Africa a servizio della missione e dei popoli locali.

    Il suo martirio ha un retroscena amaro: un agguato in piena regola, forse per punire chi educa al bene e alla libertà i più piccoli, sottraendoli al crimine.

    I suoi uccisori avranno detto: «Una di meno!». Noi possiamo dire «Una di più!» a vivere e testimoniare il Vangelo. Come ha detto il nostro Arcivescovo: «Non so perché sia morta. Se perché ad Haiti non vale niente la vita, se perché la sollecitudine verso i più deboli dava fastidio o se ci sono uomini che uccidono e rubano. Credo che lei stasera ci possa dire di essere morta per insegnare a vivere».

    don Gianni

  • Città che prega

    Città che prega

    Usando la statistica, si potrebbe dire che quanti hanno partecipato la scorsa settimana alle Giornate Eucaristiche, riedizione delle antiche Quarantore, non superano il 2-3% della popolazione desiana. Certamente il periodo, il caldo, la pandemia, l’impossibilità di portare i neonati o gli anziani allettati, hanno influito. E poi, l’ostinazione a proporre adorazioni e processioni, pur nella scia tradizionale del Corpus Domini, non sembra attrarre i giovani e le giovani famiglie.

    Eppure… Eppure sono rimasto colpito da persone piuttosto anonime, volti normali se non sconosciuti, che hanno approfittato dell’esposizione dell’Eucaristia per trascorrere in chiesa un tempo prolungato di preghiera, di silenzio; tempo perso, forse, per chi nutre di frenesie i propri giorni. Mi hanno commosso coloro che per strada si sono inginocchiati al passare del Signore nella processione, esprimendo con lo sguardo un atto di contemplazione.

    A san Paolo, che a Corinto si lamentava della città cosmopolita, distratta e dedita a idoli e piaceri, Gesù in visione rispose: «Io ho un popolo numeroso in questa città».

    Le nostre percentuali non registrano il cuore di quei genitori che al Signore affidano il futuro dei figli, grandi e piccoli, né il grido nascosto degli infermi e di coloro che patiscono la solitudine, ma hanno imparato ad affidarsi a Lui, o l’ansia per la pace di tante persone sincere. Se c’è una città che prega visibilmente, ce n’è una nascosta che prega ancora di più. Non lasciamo senza questo percorso di vita i nostri piccoli e i nostri giovani.

    don Gianni

  • Guardare «dal basso»

    Guardare «dal basso»

    Nell’Angelus del 12 giugno, Papa Francesco è tornato sulla guerra in Ucraina: «Il tempo che passa non raffreddi il nostro dolore e la nostra preoccupazione per quella gente martoriata. Per favore, non
    abituiamoci a questa tragica realtà!».

    Torniamo all’enciclica Fratelli tutti del 3 ottobre 2020: «La guerra non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il mondo sta trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che cominciava a dare alcuni frutti» (n. 256) e «Poiché si stanno creando nuovamente le condizioni per la proliferazione di guerre, ricordo che la guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente» (n. 257). E ancora: «Nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale» (n. 259).

    Infastidiscono quei commentatori che inseriscono il Papa in uno schieramento “pro” o “contro”. Si è giu-
    stamente osservato che lui guarda le cose non da Est o da Ovest, ma dal basso: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male.

    Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime» (n. 261). È la realtà vista secondo un sapiente sguardo evangelico.

    don Gianni

  • «Date loro da mangiare»

    «Date loro da mangiare»

    Nell’episodio della moltiplicazione dei pani, quando gli apostoli fanno notare a Gesù la folla numerosa e affamata, egli risponde: «Voi stessi date loro da mangiare». Così proclama il vangelo di Luca nel Corpus Domini e questo sarà il titolo delle Giornate Eucaristiche.

    Dovendo ricordare quest’anno nell’ultima settimana di maggio il centenario dell’elezione papale di Pio XI, da quel periodo le Giornate sono state spostate alla metà di giugno, nella festa del Corpus Domini.

    Esse sono l’occasione di fermarsi in silenzio e preghiera davanti all’Eucaristia e instaurare con Gesù un dialogo personale, fatto di confidenza, ascolto e richieste.

    Normalmente la proposta raccoglie una minoranza di persone molto motivate. Molti mancano, ma non è colpa loro se è diventato così difficile imparare a rivolgersi a Gesù come a un amico a partire dalla propria interiorità. Prima e dopo le celebrazioni, per esempio, vediamo spesso gente che conversa amabilmente di tutto in casa di un Altro, senza tenere conto del “padrone di casa”. D’altra parte, il silenzio oggi appare fastidioso e difficile: se ne ha paura (più di guerre e pandemie) perché non si sa più come riempirlo.

    Eppure a noi discepoli è affidato il compito di dare da mangiare alle folle: «Voi stessi date loro da mangiare». Il nostro prossimo è affamato di amore, pace, giustizia e molto altro. Ma non potremo nutrirlo, se non saremo andati personalmente alla scuola di Gesù. Per poter dare generosamente da mangiare ad altri, occorre prima frequentare Lui, Pane vivo per la vita del mondo.

    don Gianni

  • COMUNITÀ ALTERNATIVA

    COMUNITÀ ALTERNATIVA

    «Come si può dunque definire una “comunità alternativa”? È una rete di relazioni fondate sul Vangelo, che si colloca in una società frammentata, dalle relazioni deboli, fiacche, prevalentemente funzionali, spesso conflittuali. In tale quadro di società la comunità alternativa è la “città sul monte”, è il “sale della terra”, è la “lucerna sul lucerniere”, è “luce del mondo” (cf Mt 5,13-16)»: così nel 1995 scriveva il card. Carlo Maria Martini nella lettera pastorale intitolata Ripartiamo da Dio.

    A pensarci bene, la Pentecoste porta il dono dello Spirito ed è un esplicito invito a ripartire da Dio! Ripartire verso dove? Un frutto dello Spirito è la comunità di cui facciamo parte e che è chiamata a non omologarsi con i criteri mondani, ma a portare nel mondo la libertà di Dio, il suo amore, i segni della sua misericordia.

    Lo Spirito non scende in una comunità perfetta, coraggiosa, efficiente, ma tra coloro che Dio sceglie perché si convertano e diventino comunità alternativa.

    Comunità, perché fonda i suoi legami non sulla simpatia, ma sulla fraternità. Alternativa, perché inviata a portare al mondo la novità del Vangelo.

    Aggiungeva il card. Martini: «Anche con tutti i suoi peccati la comunità alternativa rimane un ideale di fraternità in divenire, destinato a mostrare a una società frammentata e divisa che possono esistere legami gratuiti e sinceri, che non ci sono solo rapporti di convenienza o di interesse, che il primato di Dio significa anche emergere di ciò che di meglio c’è nel cuore dell’uomo e della società».

    don Gianni

  • Mai abbastanza

    Mai abbastanza

    Ciò che temo di più in certe celebrazioni è quel brusio di sottofondo che accompagna alcune occasioni, specialmente durante battesimi, matrimoni, prime comunioni e cresime (qualche volta causato anche dagli stessi collaboratori presenti sull’altare).

    Forse non è una malattia grave, ma un sintomo sì. Lo avverto – ma forse esagero – come un essere non del tutto in sintonia con l’azione che il Signore sta svolgendo, come un estraniarsi rispetto all’impegno di preghiera e di relazione con Dio che il momento esige, come una disabitudine a fare silenzio per cercare il volto di Gesù.

    Il nostro tempo è costantemente abitato da rumori e induce alla fretta e alla
    superficialità: chiedere un istante di silenzio, di preghiera, di ascolto, di raccoglimento – raccogliere i pensieri e le forze, per poi agire bene – rasenta lo scandalo. Il prete lo chiede, ma a me che importa?

    Forse c’è anche una sottile paura: e se poi Dio mi parlasse davvero e mi spingesse a mettere maggiore impegno ad evitare gli sbagli miei che ben conosco? O mi invitasse a rinnovare scelte e comportamenti nella logica dell’amore e non dell’egoismo? O mi chiedesse di rinnovare in modo più convinto il mio cammino di fede?

    Il silenzio: che pericolo! Però non ce n’è mai abbastanza.

    don Gianni