Categoria: Editoriali

  • Non abituarsi

    Non abituarsi

    La provocazione arriva addirittura da papa Francesco nel giorno di Pasqua: «Si scelga la pace. Si smetta di mostrare i muscoli mentre la gente soffre. Per favore, per favore: non abituiamoci alla guerra, impegniamoci tutti a chiedere a gran voce la pace, dai balconi e per le strade! Pace!».

    Smettere di mostrare i muscoli: un fenomeno che avviene non solo tra eserciti o alleanze politico-militari, ma che può ritrovare il suo ambiente nei luoghi di lavoro, nelle famiglie, talvolta nei rapporti tra i giovani; lo
    ritroviamo come premessa negli stili di vita della criminalità organizzata, delle baby-gang e nei casi di femminicidio; talvolta persino in riunioni di condominio o in dispute sportive.

    Non abituiamoci alla guerra: ci si può abituare quando non si sente più dentro di sé una forza contraria alla
    guerra, quando si cercano giustificazioni, quando le notizie cominciano a scemare e si torna a interessarsi di altro. Qui dovrebbe valere la tolleranza zero.

    Scriveva il teologo protestante tedesco Dietrich Bonhoeffer (morto nel campo di concentramento di Flossenbürg nel 1945): «Come si crea la pace? Con un sistema di trattati politici, investendo capitali internazionali nei paesi, vale a dire attraverso le grandi banche, mediante il denaro? O addirittura attraverso un riarmo pacifico generale con lo scopo di assicurare la pace. Le battaglie non vengono vinte con le armi, ma con Dio, vengono vinte anche laddove la strada porta alla croce».

    Da cristiani vogliamo ancora vincere con Dio, e con la quotidiana preghiera per la pace.

    don Gianni

  • Non tutto e subito

    Non tutto e subito

    Quando apro un computer per visitare un sito divento impaziente: se la connessione non è immediata, mi sembra di sprecare tempo. La mentalità del tutto e subito riempie la vita di molti di noi. La tecnologia ci abitua ad avere subito a disposizione determinate funzioni. Ma anche frenesia e ansietà ci mettono nelle condizioni di non saper aspettare. Quando si chiedono alcune prestazioni professionali, sembra che i tempi di attesa siano sempre eterni anche quando la burocrazia è sollecita e gli specialisti rispondono con rapidità.

    Si diventa frettolosi persino nella richiesta di un servizio religioso, senza rendersi conto che pure la parrocchia non è un bancomat che risponde solo perché si è impostato un pin.

    Tutto e subito, oppure – si dice oggi – in tempo reale. Questa mentalità potrebbe non sopportare che Gesù risorga al terzo giorno, ossia che lasci un tempo di decantazione tra la propria morte e l’evento della risurrezione: un tempo nel quale i discepoli possano rielaborare l’accaduto, comprendere cosa sia un lutto, verificare la fondatezza della loro speranza, ripensare al senso del cammino compiuto, orientare l’attesa verso il Dio della vita.

    Del resto non riusciamo a vincere tutto e subito nemmeno i nostri difetti, ma occorrono allenamento, applicazione, perseveranza. Lo stesso vale per i grandi eventi del mondo: la pace contro le guerre (anche quelle in famiglia o in certe periferie), la tutela del creato e della natura, la ricerca della giustizia. Il terzo giorno però arriva, ed è opera di Dio, non nostra.

    Buona Pasqua!

    don Gianni

  • Mistero della fede

    Mistero della fede

    “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. “Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta”. “Tu ci hai redenti con la tua croce e la tua risurrezione: salvaci, o Salvatore del mondo”. Nel cuore della preghiera eucaristica, subito dopo la memoria dell’ultima cena e la consacrazione ed elevazione del pane e del vino, l’assemblea liturgica è chiamata a intervenire con una breve acclamazione, in una delle tre formule sopra citate.

    Così il popolo di Dio si appropria di ciò che è accaduto e fa sua la preghiera pronunciata dal sacerdote a nome di tutta la Chiesa.

    Dire Mistero della fede non significa che ciò che è accaduto – la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo – sia incomprensibile, non si possa capire. La parola mistero indica piuttosto quel mescolarsi tra realtà umane e materiali, pane e vino, e l’azione di Dio che, oltre a garantire la sua presenza tra noi, specifica come è presente.

    Infatti la risposta in tutti e tre i testi parla di morte, o croce, e risurrezione e invoca la venuta e la salvezza di Gesù, ossia la pienezza della sua vita in noi. Affermiamo così che la Pasqua di Gesù è il vero centro della vita cristiana e della fede stessa. Tant’è vero che Gesù ci presenta il suo corpo come sacrificato e il suo sangue come sparso: l’eucaristia è dunque immagine ed espressione dellasua croce e della sua risurrezione. Non solo: dalla Pasqua inizia un processo della storia umana dove la presenza di Gesù è garantita per conseguire con Lui la vittoria finale, la vittoria su ogni morte. Ecco perché il cristiano non teme di annunciare la morte del Signore. E ciò accade non solo perché ne parla o ne legge nei vangeli o ne celebra il ricordo nella Settimana Santa.

    Annunciare la morte di Gesù è impegnarsi perché fin d’ora nessuna morte possa vincere, possa togliere la speranza, possa apparire definitiva. Ecco allora il cristiano impegnato nei campi della medi-
    cina e dell’educazione per vincere malattia e ignoranza; nelle lotte contro la povertà e il degrado dell’ambiente; e, soprattutto in questi giorni, nell’impegno a favore della pace, per eliminare, oltre alla
    orribile distruzione dei corpi, anche ogni odio, causa della morte dell’anima.

    don Gianni

  • Santo, Osanna

    Santo, Osanna

    La prassi liturgica prevede sempre di cantare l’Alleluia e il Santo. In particolare il Santo si colloca al momento centrale della messa e invita il popolo di Dio a esplodere in un canto gioioso. In esso si esprimono la manifestazione della propria fede – il Santo è Dio, ben presente alla Chiesa in preghiera –, lo sguardo benevolo sull’universo creato – pieno della gloria di Dio e chiamato perciò a essere casa accogliente per l’umanità – e l’attesa che si ripeta il gesto dell’ultima cena proclamando che Colui che viene nel nome del Signore è benedetto!

    Anche l’acclamazione Osanna, che originariamente pare fosse invocazione di aiuto, sull’onda di quanto i vangeli attribuiscono ai fanciulli festosi nell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, diventa un grido di giubilo.

    Come tante espressioni della preghiera cristiana e della liturgia, si può partecipare al canto del Santo in modo meccanico, senza riflettere su quanto si afferma e senza dargli la giusta intonazione. Oppure le bocche restano serrate, magari con la scusa di non conoscere testi e melodie che ormai anche le immobili statue della chiesa potrebbero far risuonare.

    Non mancherà – specie in tempi colpiti da pandemia e guerra, ma sempre siamo segnati da preoccupazioni e sofferenze personali e familiari – chi dirà che non c’è niente da festeggiare e di cui gioire, e in parte gli si potrà dare ragione.

    Non dimentichiamo però che il canto del Santo introduce proprio la memoria dell’ultima cena e del sacrificio cruento della croce: il corpo di Gesù è offerto e il suo sangue è versato. Questo è però il modo con cui Dio ama, perdona, impegna se stesso senza sacrificare altri. E si realizza qui la parola di Gesù: Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici.

    Siamo noi gli amici che ricevono la vita, lo sono i cieli e la terra risplendenti della bellezza del creatore, lo è la vita dei cristiani impegnata a ripetere le parole, i gesti, lo stile di Gesù. E Gesù è benedetto perché viene nel nome del Signore: non è una benedizione di cui si appropria come se avesse vinto un Oscar o una medaglia olimpica, ma è la benedizione di Dio che, riversata sul Figlio, raggiunge ciascuno di noi.

    Proclamando che Gesù è benedetto lo siamo anche noi, l’umanità del nostro tempo, il nostro mondo. Anche in tempi bui e tristi, la nostra vita è benedizione per tutti.

    don Gianni

  • Quale pace?

    Quale pace?

    Dopo il segno di croce, il Kyrie e il salmo, mi soffermo sullo scambio della pace. Un gesto talvolta vissuto frettolosamente. La pandemia ne ha anche ridotto la dinamica, coinvolgendo per ora solo lo sguardo e non anche le mani.

    In rito ambrosiano il gesto della pace è posizionato prima della presentazione del pane e del vino, in fedeltà alla parola di Gesù nel vangelo di Matteo (5,23-24): «Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono». E infatti il celebrante o il diacono secondo la formula del messale possono dire: «Secondo
    l’ammonimento del Signore, prima di presentare i nostri doni all’altare, scambiamoci il dono della
    pace».

    I più anziani ricorderanno che ai tempi della messa in latino questo gesto non c’era, anche se le parole corrispondenti venivano pronunciate (Offerte vobis pacem).

    Scambiarsi un gesto di pace spinge anzitutto i partecipanti alla messa a sentire e vedere che non sono presenti al rito come singoli, slegati e staccati tra loro, ma come comunità: la prima carità cristiana è proprio quella di edificare una comunità concreta, un’assemblea di preghiera, un’unica famiglia di Dio, durante la santa liturgia. Altrimenti anche la carità verso i poveri sarà segnata da
    una mentalità di competizione e di efficienza, più per affermare se stessi e le proprie realizzazioni che per servire chi è nel bisogno.

    Scambiarsi un gesto di pace spinge a interrogarsi interiormente se il nostro animo è in pace, se non ci sia qualcuno che ci vede come nemici, se noi stessi coltiviamo sentimenti di inimicizia. Desiderando che non prevalgano rancori e risentimenti, ma emergano desideri di riconciliazione.

    Scambiarsi un gesto di pace è lanciare una profezia: sono cristiano e questo gesto per me riassume il progetto del Vangelo, di Gesù, sul mondo: un mondo di Fratelli tutti, come direbbe papa Francesco.

    Un gesto davvero rivoluzionario: annunciare e costruire pace per i popoli, specialmente di fronte a conflitti sanguinosi, come quello cui assistiamo in queste settimane, e come quelli che i nostri tempi non ci hanno risparmiato ovunque nel mondo.

    Stringendosi la mano, sorridendo con lo sguardo, abbracciandosi: sia pace tra noi.

    Un tesoro da custodire e sfruttare, da ascoltare e ripetere.

    don Gianni

  • Con o senza vergogna

    Con o senza vergogna

    La scorsa settimana ho scritto del segno della croce, gesto introduttivo specialmente alla celebrazione della Messa.

    Proseguendo proprio nei gesti della Messa, viviamo l’atto penitenziale, dove i fedeli sono invitati a rendersi conto di essere peccatori e a chiedere perdono. Un gesto scomodo, che passa rapidamente.

    Nelle messe con gruppi ristretti di ragazzi ho provato talvolta a chiedere se, superando un certo disagio, non volessero confessare pubblicamente qualcosa di cui era opportuno secondo loro chiedere perdono e che, ovviamente, potesse essere condiviso con tutti.

    I più coraggiosi hanno aderito: non avevano osservato certe regole della vacanza comunitaria, avevano preso in giro un compagno più debole, avevano sprecato del cibo, avevano fatto – letterale – diventare matti gli animatori ecc. Questo gesto, vissuto in partenza con un po’ di vergogna, diventava per tutti una liberazione, vedendo che tutti fatichiamo, tutti ci rendiamo conto di sbagliare, tutti possiamo chiedere scusa a Dio e al prossimo e ricominciare con serenità il nostro cammino.
    Se ripetessimo questa proposta agli adulti in un’assemblea domenicale?

    Qualcuno penserebbe: “Queste sono cose mie personali, non metto in pubblico le mie magagne”. Qualcun altro: “Se dico qualcosa, poi verrò giudicato male, perché la gente pensa bene di me”. Oppure: “Sono un disastro, non basterebbero due ore”. E ancora: “Sono gli altri che devono vergognarsi: mogli, mariti, figli, suoceri, governo, parrocchia”. Non mancherebbe l’obiezione: “Ma io non ho niente di cui vergognarmi! Cosa pretende?”.

    E infine: “I soliti preti che vogliono manipolare le coscienze!”.

    Già, le coscienze: l’esame di coscienza, la conoscenza di sé, il discernimento di bene e male, il rientrare in sé per dare nome alle proprie luci e alle proprie ombre, per raccogliere le proprie ferite e affidarsi alla misericordia del Signore.

    Quando diciamo Kyrie eleison – Signore, abbi pietà di noi – e quando confessiamo di avere molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni stiamo preparando il terreno per la nostra conversione e per la trasformazione del mondo.

    Nella richiesta di perdono infatti non portiamo solo noi stessi e i nostri peccati, ma le disgrazie e le malvagità del mondo e invochiamo riconciliazione affinché siano superate fame, guerre, malattie, odio e indifferenza.

    don Gianni

  • Nel nome…

    Ogni nostro incontro di preghiera, soprattutto la celebrazione eucaristica, inizia con il segno della croce: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E la messa stessa si conclude nel nome di Cristo.

    Anche entrando in una chiesa siamo abituati – e dovremmo farlo con i più piccoli – a fare il segno della croce, come indizio di ingresso in un luogo “diverso”.

    Incontrare una persona nel nome di qualcuno, parlare a suo nome, portare doni a suo nome è superare il momento contingente e fare riferimento a un altro che può inviarci messaggi di amicizia, pace, bellezza, oppure segni di opposizione, conflitto, separazione. Non solo la nostra preghiera, ma la nostra stessa giornata dovrebbe iniziare e concludersi nel nome di Cristo, facendo proprio il segno della croce appena mettiamo i piedi giù dal letto o subito prima di infilarci sotto le coperte (noi che possiamo! È così per tutti in tante parti del mondo?).

    Non è un gesto scaramantico, anche se invita a confidare nella protezione di Dio. Non è nemmeno un gesto identitario, per distinguersi da chi ha altre o nessuna religione. Anzitutto è un gesto di relazione: tu, Dio, sei presente, la mia vita si svolge davanti a te, i miei desideri e i miei timori ti sono noti e te li affido; così i miei limiti e ciò di cui devo essere perdonato. È un gesto di professione di fede: non sei un Dio sconosciuto, ma un Dio amore – Padre e Figlio e Spirito Santo – con il quale posso conversare, sentirmi accompagnato. È un gesto di appartenenza: chi condivide questo segno, sa che appartiene a un popolo di salvati, che vogliono consegnare ad altri segni di speranza e di pace, e rifuggono da ogni divisione, violenza, guerra. È un gesto che richiama la sofferenza di Gesù sulla croce, e quindi la sofferenza di ogni crocifisso della storia presente, di ogni malato terminale, di ogni disperato o depresso, di ogni persona ferita negli affetti per la perdita dei propri cari, di ogni vittima delle armi diaboliche che distruggono nella guerra paesi, palazzi, infrastrutture e vite umane.

    E chi vive nel nome di Dio e di Cristo, non si fa corteggiare dagli idoli e resiste alle tentazioni della ricchezza, dell’apparire, del potere. Come Gesù, sa che il segno di croce tracciato sul proprio corpo esige di evitare i compromessi per affidarsi a Dio, alla sua Parola, alla sua fedeltà. don Gianni

  • La faccia

    La faccia

    In questi giorni di clamori di guerra, ci dicono alcuni che nella crisi ucraina nessuno può perdere la faccia. Avendo fatto dichiarazioni solenni, un politico di rango non può ammettere di avere sbagliato valutazioni e tornare indietro e costruire coerentemente un percorso di pace.

    A ben vedere sembra la stessa cosa avvenuta in Italia per l’elezione del Presidente della Repubblica: dopo giorni incomprensibili, alla fine tutti hanno vinto e nessuno ha perso la faccia.

    Ammettere i propri errori e mutare direzione è tra le cose più difficili, soprattutto oggi in un mondo dove i deliri di onnipotenza attraversano non solo i governi e i parlamenti, ma forse anche le assemblee di condominio.

    Su perdere la faccia è possibile una riflessione spirituale? Probabilmente sì, se pensiamo che come cristiani siamo i discepoli di uno che ha perso non solo la faccia, ma la vita. E l’ha persa non per un caso, ma per una consegna: ha donato la propria vita per la vita del mondo.

    Parlando dunque di Gesù, potremmo dire meglio non che ha perso la faccia, ma che ci ha messo la faccia. Ed è come Lui che noi vorremmo essere.

    Metterci la faccia è uscire dal vortice delle preoccupazioni, dalle comodità, e mettersi a disposizione. Anzitutto nelle occupazioni quotidiane di famiglia, lavoro e scuola, senza aderire passivamente al modello del “fare il meno fatica possibile”. E poi si aprono gli spazi della comunità cristiana, del volontariato, dell’impegno sociale. Facce nuove per un mondo nuovo.

    don Gianni

  • Sinodalità

    Sinodalità

    Da due domeniche le preghiere dei fedeli nelle SS. Messe si concludono con questa invocazione: Per le nostre comunità chiamate a vivere la sinodalità della Chiesa: imparino a camminare insieme nella comunione, nella collaborazione e nella corresponsabilità, restando in ascolto dello Spirito e dei segni dei tempi, per essere testimoni di speranza per il mondo.
    Si cita la sinodalità, parola che deriva dal greco: syn-odos, ossia camminare insieme.

    Dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965) il papa e i vescovi hanno desiderato mantenere viva quell’esperienza di consultazione reciproca e hanno istituito il Sinodo dei Vescovi, un’assemblea che periodicamente raduna i rappresentanti di tutti i vescovi a discutere su argomenti specifici.

    Per l’ottobre 2023 papa Francesco ha fissato il tema della sinodalità,
    desiderando che siano consultate
    prima anche tutte le componenti
    del popolo di Dio.
    Da parte nostra il Consiglio pastorale cittadino ha già consegnato la sua sintesi in sede diocesana. Sono emerse alcune osservazioni
    sul camminare insieme nella chiesa: l’importanza che tutti i gruppi ecclesiali collaborino al bene della comunità, senza inutili competizioni; la chiarezza circa i rispettivi compiti di preti e laici e la possibilità di decidere insieme come servire la comunità; la necessità di un impegno più evidente dei laici cristiani nell’ambito civile e politico; la sottolineatura della quotidianità come ambito dove vivere secondo il Vangelo.

    Il cammino sinodale prosegue perché la Chiesa è famiglia di Dio e proprietà
    privata di nessuno.

    don Gianni

  • Pio XI: 1922-2022

    Pio XI: 1922-2022

    Il 6 febbraio 1922 – cent’anni fa esatti – il cardinale Achille Ratti, nativo di Desio e arcivescovo di Milano, veniva eletto Papa con il nome di Pio XI. Per la prima volta da quando Roma era capitale, il Papa volle benedirla non da una loggia interna al Vaticano, ma dal balcone della piazza, a indicare un desiderio di riconciliazione dopo le divisioni del secolo precedente.

    Per questo suo impegno Pio XI sarà chiamato Papa della Conciliazione, ma in realtà la sua preparazione storica e pastorale ne faranno un Pontefice a 360°, come si dice oggi, forse il primo Papa moderno. Pur con gli strumenti culturali, teologici e operativi del tempo – ovviamente diversi da quelli odierni – egli si impegnò ad allargare l’apostolato cristiano ai campi della famiglia, della promozione dei laici, delle missioni, dell’impegno sociale, delle comunicazioni (su YouTube troviamo il filmato dell’inaugurazione
    della Radio Vaticana con Guglielmo Marconi).

    Promosse la canonizzazione di santa Teresa di Gesù Bambino definendola “la stella del mio pontificato” e proclamandola patrona delle missioni. Nonostante avesse firmato l’accordo dei Patti Lateranensi, Mussolini lo detestava. Pio XI infatti riteneva sfide radicali al cristianesimo le ideologie totalitarie del ’900 e le condannava.

    A Desio conserviamo, non senza difficoltà organizzative ed economiche, la sua Casa Natale: un luogo dove si può comprendere la grandezza dell’uomo, l’eccezionale servizio svolto come Papa e il suo amore per la città dove era nato. I desiani non dovrebbero perderne la memoria.

    don Gianni