Categoria: Editoriali

  • I punti cardinali

    Stupore, entusiasmo, ammirazione ed esultanza. Con queste quattro parole il nostro Arcivescovo Mario Delpini ci invita a vivere il tempo dedicato al Sinodo Minore “Chiesa dalle genti” che si sta svolgendo nella Chiesa ambrosiana.

    Lo stupore ci ricorda gli occhi spalancati dei bambini, che, sin da quando vengono al mondo, scoprono ogni istante qualcosa di nuovo. Uno stupore che potremmo definire incontenibile, che nasce da un posto recondito dentro di loro e ha una strada direttissima che lo porta ad esprimersi con ogni muscolo del volto. Il tempo pare aumentare sempre più il traffico su questa strada invisibile, al punto tale che col passare degli anni il nostro sguardo diventa sospettoso, indagatore, incredulo, facendoci dimenticare così la ricchezza dei doni che il Signore ci fa. Chi ha la fortuna di essere padre o madre può sforzarsi di ricordare cos’ha provato la prima volta che ha preso in braccio suo figlio: ecco cos’è lo stupore.

    Nei Vangeli, ogni volta che Gesù compie un miracolo e stravolge le sorti di una storia che appariva già scritta, nelle persone si accende lo stupore: non possiamo pensare di poterne fare esperienza se eliminiamo la possibilità di questo inatteso cambiamento, se non apriamo gli occhi sull’operato di chi guida la storia dell’umanità. Come credenti siamo chiamati a lasciarci condurre tra le pieghe del tempo, senza sapere cosa ci sarà dietro il prossimo tornante, disponibili ad aprire la bocca per pronunciare con gioia: “WOW!”.

    L’entusiasmo comunica quanto crediamo in ciò che stiamo facendo, quanto impegno e passione mettiamo nel vivere appieno la nostra vita. La fede che abbiamo, la comunità a cui apparteniamo, sanno essere abitate dall’entusiasmo? Troppo spesso i gesti che compiamo sono frutto di uno sforzo artificioso, fredda applicazione di un comandamento, fotocopie sbiadite del si è sempre fatto così; in tutto questo non c’è spazio per l’entusiasmo, ma anzi si crea terreno fertile per la delusione, lo sconforto e la stanchezza. Se ci apriamo alla novità, se ci impegniamo per il cambiamento, se accettiamo la sfida dell’incontro, allora la realtà non sarà più grigia e fredda, ma stimolante e piena di colori.

    L’ammirazione è la benzina migliore per vivere ogni incontro. Nella realtà multiculturale e multietnica che abitiamo non si può essere Chiesa chiudendosi nel recinto del già noto: ogni incontro deve diventare occasione di conoscenza e crescita nella relazione con l’altro, rispettando le sue diversità, anche relative alle tradizioni religiose. Lasciamo spazio in noi alla meraviglia insita nell’etimologia della parola ammirazione: questa è il terreno buono nel quale possono fiorire il rispetto, la stima, la simpatia. Una Chiesa dalle genti, è una Chiesa sicura della propria ricchezza, nascosta nelle tante pieghe del tessuto sociale e culturale che la costituisce. Come si è arrivati ad esultare soltanto quando la propria squadra di calcio vince una partita, quando si raggiunge un traguardo scolastico o lavorativo? Educhiamoci a provare e mostrare una grande allegrezza ogni volta che si realizza un gesto d’amore, ogni volta che facciamo esperienza del perdono. Abitiamo un tempo in cui la parola condivisione ha un ruolo essenziale, smettiamo di vivere solo gioie private e iniziamo a raccontare, mostrare, testimoniare la bellezza del progetto di Dio per i suoi figli! Trasformiamo la nostra vita in un frammento di specchio che riflette la luce che lo colpisce: l’amore misericordioso ed incessante di Dio Padre. Illumineremo il mondo.

    Entriamo in questi giorni nella Quaresima, tempo di essenzialità e purificazione, facciamo in modo che stupore, entusiasmo, ammirazione ed esultanza diventino i punti cardinali del nostro cammino di fede.

    don Pietro

  • Hanno bussato alla porta

    Stamattina quando è suonata la sveglia proprio non volevo uscire dal letto, la mamma come al solito è entrata con la sua voce delicata a dirmi che era tardi e che la colazione mi aspettava in cucina. Dopo essermi girato alcune volte tra le coperte calde, mi sono alzato e –non so bene come- sono riuscito ad affrontare l’intera mattinata a scuola, dove abbiamo fatto mille cose interessanti assieme alle maestre.

    Non vedevo l’ora di uscire, oggi mi veniva a prendere mia mamma e prima di andare a casa mi doveva acquistare un piccolo regalo, visto che è il mio compleanno; la festa vera la farò sabato con gli amici, il regalo è solo una piacevole anteprima. Alle 17.00 sono finalmente a casa e posso godermi il nuovo videogioco appena acquistato, almeno per oggi la mamma non mi darà fastidio in continuazione con la solita frase “Smettila di giocare che l’hai già fatto abbastanza”, per oggi parte del regalo è zero disturbi da parte sua.

    Sono preso dalle avventure proiettate sullo schermo della TV, quando qualcuno bussa alla porta. Chi sarà mai, non passa mai nessuno e poi, bussare, chi bussa senza prima aver citofonato, deve essere il vicino che ha bisogno di qualcosa. La mamma mi chiede di andare a vedere chi è, mi avvicino alla porta e chiedo “Chi è?”, dall’altra parte una voce sconosciuta risponde “Sono il prete per la benedizione della casa”. Abbastanza confuso dico alla mamma che è il prete e lei portando la mano destra alla fronte esclama ad alta voce “Cavolo la benedizione, me ne ero proprio dimenticata”, si gira verso l’ingresso e dice “Arrivo subito”, poi volta lo sguardo verso di me “Andrea spegni subito quel coso”. No, scusa? Oggi è il mio compleanno, avevamo fatto un accordo e adesso mi chiedi di spegnere, per chi? Per il prete? Ma il prete non lo devo sopportare solo la domenica a messa? Ora viene anche a casa? Servizio a domicilio? Consegna gratuita?

    Il giovane prete entra in casa bardato come se fossimo in Russia: giubbotto, cappellino, sciarpa. Appena scopre il volto mi guarda sorridente e mi chiede come mi chiamo, rispondo solo per educazione mentre vorrei lamentarmi per aver interrotto la mia partita. Rasserena mia mamma riguardo il presunto disordine della casa, dicendo che non è importante se si era dimenticata della visita, per pregare basta poco e l’ordine perfetto non è richiesto. Mi sorprende per la curiosità che ha nei miei confronti, vuole sapere dove vado a scuola, come mi trovo con i compagni, se vado in oratorio…mamma mia quante domande, a sto punto ne approfitto per dirgli che è il mio compleanno e lui mi stordisce gridando “Tanti auguri!”. Ringrazio, sempre solo per educazione.

    Estrae dalla borsa una piccola immaginetta con un disegno raffigurante una Natività e mi spiega che all’interno ci sono scritte alcune parole del Papa, mentre sul retro una tabella riporta gli orari delle messe. Invita me e la mamma a dire una piccola preghiera, prima di fare un segno di croce con uno strano strumento dal quale fuoriescono alcune gocce d’acqua. Ci fa ancora gli auguri di un felice Natale e mi saluta appoggiando la mano sulla mia testa come faceva il nonno quando ero piccolo, la mamma gli consegna una busta contenente un’offerta, poi esce e sento suonare il campanello del vicino.

    Che strana questa cosa della visita natalizia, devo ammettere che è stato piacevole accogliere il prete a casa mia, anche se sono stato costretto ad spegnere la Playstation. Sento sempre dire che la Chiesa siamo noi, che la Chiesa è vicina, beh oggi ho capito che non sono solo parole. Per la prima volta non sono stato io ad aprire il pesante portone della chiesa, ma mi è bastato aprire la porta di casa mia.

    Guardo il cartoncino che mi ha lasciato il don, c’è scritto “Dio non è lontano, non dobbiamo cercarlo nelle orbite celesti o in qualche mistica idea”, mi viene da dire che a volte è talmente vicino che bussa alla porta, ma non so se il don sarebbe d’accordo, forse esagero.

     

    don Pietro

  • Gli scaffali della farmacia

    Quando ero piccolo rimanevo sempre affascinato dagli scaffali delle farmacie: così alti, bianchi, puliti. Erano fatti di mille cassetti che si aprivano rivelando un ordine perfetto al loro interno: migliaia di scatole di pillole, sciroppi e pastiglie, una a fianco all’altra sempre perfettamente ordinate. Non capitava mai che il farmacista sbagliasse ad aprire un cassetto, sapeva esattamente dove cercare la cura adatta al male del momento. Per ogni problema, una soluzione pronta in una scatola chiusa che chiedeva solo di essere aperta e di venir consumata secondo il giusto dosaggio.

     

    Avrei capito solo molti anni dopo che quelle scatole non contenevano magiche pillole per ogni male e che, in alcuni casi, non c’era scatola capace di curare determinate malattie.

     

    A volte credo che le persone vivano i vari ambiti della propria vita come se fossero una serie di quegli scaffali, ognuno ben separato dagli altri, ognuno contenente un prodotto adatto all’esigenza temporanea. Non si aprono mai più scaffali contemporaneamente né se ne lascia aperto uno, se no il farmacista rischia di sbatterci contro.

     

    C’è lo scaffale del wellness che contiene i prodotti che rilassano la pelle e prevengono il formarsi delle rughe, i cibi chilometro zero che tengono alla larga pesticidi e coloranti, i momenti di svago e il tempo libero passato con gli amici.

    C’è lo scaffale del fitness pieno di piccoli flaconi al cui interno sono concentrate le ore in palestra, le sedute dal massaggiatore, le corse mattutine, i migliori integratori e le bevande energetiche.

    C’è lo scaffale del lavoro con scatole colme di rabbia, stress, orari, scadenze, solo ogni tanto si trova miracolosamente qualche scatola mezza vuota contenete soddisfazioni e promozioni.

    C’è lo scaffale del piacere, la sua anta è la più larga di tutte, ma sempre perfettamente oliata per permetterne la facile apertura; al suo interno si susseguono una dopo l’altra le bottiglie dei migliori vini, delle birre più corpose e dei superalcolici più pesanti, quando siamo di pessimo umore giochiamo a mischiare tutte queste bottiglie, credendo di trovare la formula magica per la perfetta medicina. In questo scaffale ci sono anche grosse scatole contenenti parti di persone ammucchiate l’una sopra l’altra: le natiche di un amica, il decolté di una conoscente, i pettorali di un vicino, il volto di una sconosciuta, le gambe dell’amica di nostra moglie; sono come quei vasetti pieni di piccole caramelle colorate, una diversa dall’altra, che ci divertiamo a gustare puntando di volta in volta su un determinato colore.

    C’è lo scaffale della famiglia le cui scatole sembrano più che altro pacchi dono, per quanto sono tenute bene, decorate e preziose, al loro interno c’è una scorta d’affetto, una manciata di perdono, alcune dosi di delusione, qualche pastiglia di arrabbiatura e tanti confetti d’amore.

    C’è lo scaffale della fede, ci sono momenti in cui pare nessuno abbia oliato i suoi binari dalla fatica che si fa ad aprirlo, tendenzialmente si apre almeno una volta la settimana, la domenica, manco lo avesse prescritto il medico. Al suo interno lo spazio è occupato da scatole di misericordia, alcuni flaconi di sensi di colpa mischiati con rigidi precetti, qua e là è possibile trovare delle pastiglie di gioia e pace del cuore, di alcune scatole ignoriamo il contenuto, abbandonate da troppi anni e ricoperte di polvere.

     

    Davvero crediamo sia possibile vivere così? Aprendo uno scaffale alla volta e chiudendolo ermeticamente subito dopo? Passiamo da uno all’altro come fossero i canali della TV, facciamo continuamente zapping e non ci rendiamo neppure conto dell’anta che abbiamo appena chiuso, né tantomeno siamo realmente interessati a quella che stiamo per aprire.

    Quando impareremo che una pillola influisce sulle altre, che non si può passare da un flacone al successivo senza pensare alle controindicazioni, che alcune medicine hanno bisogno di tempo e attenzioni prima di fare effetto? Forse basterebbe tornare al di là del bancone e smettere di giocare a fare il farmacista, aprire gli occhi e realizzare che non siamo in un Fai-da-te.

     

    don Pietro

  • La piccola bellezza

    10 giorni fa è arrivato il fatidico momento in cui giriamo il foglio del calendario e compare implacabile la scritta settembre, mettiamo via le valigie, riponiamo in un armadietto le creme solari e nella loro scatola gli scarponi da montagna. Si ricomincia!

    Una delle poche cose belle di questo mese sono le feste: abbiamo iniziato con la festa di San Rocco il primo fine settimana, poi la festa patronale di San Pio X, le fiaccoline e le feste dei nostri oratori, che concludono il mese e danno avvio al nuovo anno oratoriano. Come da tradizione la FOM (fondazione oratori milanesi) ci suggerisce un tema per questo anno: “Vedrai che bello”, il riferimento è al capitolo 1 del Vangelo di Giovanni nel quale Gesù alla domanda dei discepoli di Giovanni “Maestro, dove dimori?” risponde “Venite e vedrete”.

    L’invito che fa il Signore ci rivela uno stile che ogni cristiano dovrebbe avere e, secondo il mio modesto parere, rischia di essere dimenticato nel nostro tempo. C’è una bellezza da riscoprire, un bello che dona slancio e senso al fare di ogni giorno, un bello sempre più difficile da vedere perché abbiamo le lenti appannate dall’odio e dai drammi che vengono quotidianamente esaltati sotto la luce accecante dei media. Come si può vivere secondo l’esempio di Cristo se vediamo soltanto i buchi neri dell’umanità? La bellezza è reale e concreta, ma dobbiamo cercarla, svelarla, togliere quei drappi che ci impediscono di goderne. In tutto questo può aiutarci il periodo estivo appena concluso: spesso le vacanze sono quel tempo straordinario nel quale sappiamo ancora far esistere lo stupore nel nostro volto, guardare una frazione di creato e chiamarla piccolo pezzo di paradiso. Torniamo con la mente a questa esperienza per saper riconoscere la bellezza che ci circonda.

    Per vedere tutto ciò Gesù ci dice che è necessario un venire, mettersi in cammino, uscire dalla propria comfort zone, svolgere un ruolo attivo. In questa epoca in cui abitiamo un’infinità di spazi contemporaneamente, grazie agli strumenti che sono diventati ormai un’estensione del nostro corpo, il rischio è quello di essere presenti ovunque ma sempre e solo con una partecipazione passiva che passa attraverso i tasti di una tastiera. Uno tsunami di commenti, like, faccine sorridenti o arrabbiate, attraverso i quali esprimiamo le nostre idee, difendiamo una causa o insultiamo chi la pensa diversamente; tutto questo può portare a vivere la propria appartenenza ad una comunità in modalità remota, restando comodamente in casa, mentre si dimentica di cosa abbia bisogno realmente la comunità: affetto, aiuto, abbracci, servizi.

    “Vedrai che bello” è un invito fatto non solo a chi abita i nostri oratori, ma ad ogni uomo per ricordargli che è ancora possibile stupirsi per tante piccole schegge di bellezza nascoste qua e là nella vita, ma è necessario sporcarsi le mani, aprire la porta di casa ed uscire, compiendo quei passi che permettono si realizzi un vero incontro.

    don Pietro

  • Tutto tranne che: Detto, fatto!

    “Detto, fatto”, chissà quante volte hai usato questa espressione per indicare una cosa semplice e veloce da fare, quasi che il tempo per raccontarla fosse maggiore di quello richiesto per realizzarla.

    Bene, questa stessa espressione è stata scelta come motto per l’oratorio estivo di questo anno. Il passo della Sacra Scrittura a cui fa riferimento sono i giorni della creazione nei quali Dio ha realizzato ogni cosa. Bellissimo tema e pieno di possibili riflessioni da fare con i ragazzi in queste settimane estive, che si fanno sempre più vicine.

     

    La verità è che un oratorio estivo è tutto tranne che “Detto, fatto!”, dietro quelle settimane piene di colore, musica e giochi, c’è tanto lavoro e moltissime persone coinvolte. La prima categoria che mi viene in mente sono gli animatori, di solito ragazzi delle superiori, che si occupano di seguire i più piccoli facendoli giocare e divertire a più non posso; poi ci sono i tanti volontari adulti che svolgono le mansioni più disparate: c’è il bar da gestire, ci sono gli spazi da pulire, c’è la segreteria da seguire con i suoi mille elenchi, ci sono le gite da organizzare, i piatti da servire e -a volte- anche da cucinare. Insomma dietro quei giorni che appaiono sempre felici e, che per uno sguardo distratto, possono far credere che la crisi degli oratori sia lasciata alle spalle, c’è una mole di lavoro mastodontico e che inizia ben prima che la temperatura segnata dal termometro superi i 20 gradi.

     

    A volte ho l’impressione che le persone -non tutte, sia chiaro- si approcciano alla proposta estiva dei nostri oratori secondo la logica del #dettofatto, ok c’è lo sbattimento di dover impazzire il primo giorno delle iscrizioni per non farsi portar via il posto a pranzo, magari non tutte le gite ci aggradano, in alcuni casi ci sono anche degli spiacevoli episodi che coinvolgono i propri figli; ma in fondo si può tirar un gran sospiro sapendo che il proprio figlio non sarà a casa da solo a buttar via giornate intere una volta che la scuola è finita. Questa è una tentazione che bisogna combattere, non si può dare per scontato che anche quest’anno, come ogni anno, ci sarà la macchina Oratorio Estivo ad offrire il servizio migliore al costo minore. Dobbiamo ricordare che dietro ad ogni risposta positiva o negativa circa le varie iniziative in programma c’è un duro impegno da parte di un grande numero di persone per offrire ai più piccoli un tempo di crescita educativo e di fede, NON facciamo e NON vogliamo essere un centro estivo. La logica che sostiene un oratorio estivo non è quella di rispondere a un bisogno, di offrire un servizio, per quello ci sono le proposte del Comune o di associazioni sportive. Cerchiamo di ricordarcelo mentre compiliamo la scheda d’iscrizione dell’oratorio vicino casa; anche se c’è il rischio di rimanere delusi da alcune attività, pensiamo a quante cose vengono fatte, a quanti volontari sono coinvolti e quanti bambini avranno da seguire.

     

    Qui non si offrono soluzioni per i problemi di tutti, ma si cerca di fare le cose con passione, col desiderio di ricordare a tutti che al centro ci deve essere Gesù: nelle parole che diciamo e nello stile che proponiamo. Qui si vuole valorizzare il poco che ognuno può offrire per fare molto assieme. Qui si desidera educare più che animare, rispettare più che vincere, sostenere più che sorprendere.

    Quando passeremo davanti all’ingresso dell’oratorio e vedremo sventolare la bandiera col motto “Detto, fatto” o sentiremo sparato a tutto volume l’inno ballato da tutti i bambini, ricordiamoci che dietro quelle due parole c’è qualcosa di assolutamente lontano dall’essere #dettofatto.

     

    don Pietro

  • Presa diretta

    La giornata inizia presto, verso le 7.00 sono già in strada ed un silenzio abita il tragitto che porta verso la stazione, poche persone sul binario in attesa del treno ma una luce abita i loro occhi, la luce di chi sa che quella sarà una giornata speciale. La gioia dell’attesa che nasce quando stiamo per vivere un incontro atteso da molto.

    Nel vagone ci sono poche persone ma tutte lì per lo stesso motivo, appena arrivati a Milano il rischio di sbagliare strada è nullo, perché la meta è la stessa per tutti. La piazza del Duomo si sta lentamente riempiendo, le persone instradate in maniera calma e ordinata, noi preti avremo l’occasione di gustare delle parole di Francesco prima di quella folla. Certamente il desiderio di quell’incontro è grande per tutti, per le famiglie della piazza così come per i preti e i consacrati, tant’è che le navate della Cattedrale sono piene e le panche vuote si possono contare a vista d’occhio. Dopo un momento di preghiera dei presenti, finalmente ecco comparire sugli schermi la papamobile: chi ha la fortuna di essere nella navata centrale si alza e si accalca vicino alle transenne che delimitano il cammino che conduce all’altare. Quando entra Francesco nella chiesa i volti dei presenti si illuminano come quelli dei bambini che accolgono il papà la sera dopo il lavoro. Un lungo applauso, accompagnato dai continui scatti degli smartphone, riempie lo spazio, finché il Santo Padre raggiunge la sacrestia. Prima di iniziare il dialogo con noi, c’è il tempo dell’adorazione di fronte al Santissimo, minuti di intensa preghiera che paiono ancora più pregnanti in quei pochi istanti in cui Francesco socchiude gli occhi, minuti che precedono ogni saluto, anche il più delicato fra tutti, quello col Card. Dionigi Tettamanzi. Il tempo sembra rallentarsi quando a stringere le mani del Papa sono gli ammalati, come a dimostrare che la carità non ha mai fretta, non può essere chiusa tra gli stretti blocchi di un programma di un’intensa giornata.

    Un prete, una suora e un diacono sostengono il dialogo e le risposte del Papa, che ammette di averle preparate prima, ma hanno il sapore delle parole dette col cuore, con totale libertà, con la capacità di correggere tipica di un padre amoroso. Saremo capaci di farne tesoro e lasciarci cambiare? Non c’è tempo per abbozzare una risposta, perché è arrivato il momento dell’angelus con i fedeli presenti in piazza.

    Mentre Francesco accoglie le parole dei detenuti di San Vittore e condivide con loro il pranzo; come diversi fiumi che alimentano un lago, serpenti di persone si dirigono verso il punto del parco di Monza dove si svolgerà la celebrazione eucaristica. Non è solo il numero dei presenti a colpire, ma la ricchezza di una massa di persone completamente eterogenea, le famiglie, gli anziani, i gruppi di giovani che di primo acchito sembrano lontani da ogni cosa che potrebbe essere accostato alla parola “chiesa”. È questa la forza di Francesco, riuscire a parlare a tutte le persone, testimone credibile del messaggio che porta, al punto tale da saper muovere e interessare ogni uomo che non si chiuda in se stesso.

    Prevedibile la standing ovation  e le urla di gioia non appena il Santo Padre entra nell’area e passa attraverso i corridoi che dividono i vari settori salutando tutti col consueto sorriso; successivamente la papamobile si dirige nell’area dietro al palco per permettere al celebrante di indossare i paramenti. Il canto d’ingresso protratto per circa venti minuti inizia a preoccuparmi, che sia successo qualcosa? Ma ecco che l’odore dell’incenso si diffonde per l’aria e, di lì a poco, fa la sua comparsa la lunga processione dei concelebranti. Sono le prime parole del Pontefice a far trasparire una grande stanchezza, quel segno di croce recitato con un filo di voce che permette di intuire il peso di una giornata senza sosta. Fortunatamente, col trascorrere della celebrazione le cose sembrano migliorare e la voce ritorna forte e chiara nel momento dell’omelia, nella quale ci viene ricordato che Dio sceglie di inserirsi nelle nostre sfide quotidiane, che non bisogna approfittarsi del momentaneo smarrimento che può sorgere di fronte al manifestarsi del Suo progetto su di noi, che siamo chiamati a vivere in pienezza la gioia del Vangelo.

    Un sole caldo e luminoso accompagna l’intera visita di Francesco, che dopo aver imposto la benedizione a quasi un milione di pellegrini presenti a Monza, si dirige verso lo stadio di San Siro dove 80000 cresimandi accompagnati dai loro catechisti e genitori lo accolgono con un’esplosione di vitalità e colori.

    La sera, quando il sole ha abbandonato il cielo, un breve temporale fa compagnia ai pellegrini che stanno rientrando nelle loro case: dopo una giornata così intensa pare che anche il cielo abbia bisogno di lasciarsi andare dopo aver dato il meglio di sé, di scaricarsi con questo acquazzone!

     

    don Pietro

  • Facciamo un gioco?

    Questa sera a cena, quando siete tutti seduti allo stesso tavolo, prima di alzarvi provate a fare questo gioco: ognuno tira fuori il proprio smartphone, si va in impostazioni, quindi nella sezione dedicata alla batteria e si controlla il tempo di utilizzo dall’ultima ricarica completa (se avete uno smartphone android basta verificare il tempo di attività dello schermo). Se avete figli preadolescenti o adolescenti potreste avere spiacevoli sorprese.

     

    Uno studio dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che ha coinvolto 8000 adolescenti di 18 regioni italiane, di età compresa tra gli 11 e i 19 anni, mostra come il 50% degli adolescenti trascorre dalle 3 alle 6 ore extrascolastiche con lo smartphone in mano, il 16% dalle 7 alle 10 ore, per poi arrivare ad un 10 % che supera abbondantemente le 10 ore. I nostri ragazzi sono sempre più iperconnessi e ormai l’impatto dell’essere always online ha un peso sempre maggiore sulla propria vita. Ma cosa fanno essenzialmente i più giovani quando sono sulla rete? Un ruolo fondamentale lo svolgono i social network e le applicazioni di istant messaging (il tanto amato o odiato Whatsapp). Il 95% degli adolescenti ha almeno un profilo personale sui social, ma la cosa che più spaventa è che il 14% ha anche un profilo finto, che pochi conoscono e col quale è facile vivere i peggiori atteggiamenti di cyberbullismo o frequentare gruppi decisamente non adatti alla propria età.

     

    Alcuni atteggiamenti dei cittadini più giovani della rete sono davvero deleteri: il vamping, l’essere sui social durante le ore notturne; la likemania, l’ossessione di raggiungere sempre più like coi propri post; le challenge, sfide simil catene di sant’Antonio nella quali si è nominati tramite un tag col proprio nome e si è chiamati a postare un video o una foto che ci ritragga intenti in un’azione più o meno sconsiderata. Spesso le sfide sono legate al consumo di alcool o di droghe leggere o no. Tutte queste devianze si legano sempre più alla nomofobia, la paura di rimanere senza smartphone o connessione dati.

     

    Scrivo tutto questo non per creare allarmismo ne tantomeno per accendere chissà quale stupida ed inutile battaglia contro l’utilizzo degli smartphone o i social network; studio linguaggi dei media, sono appassionato di new media e credo fermamente che la rete rappresenti uno spazio pieno di possibilità. Di sicuro, come ogni ambiente, va abitato in maniera responsabile e tutti siamo chiamati ad impegnarci per far si che venga rispettata la netiquette, il complesso di regole volto a favorire il reciproco rispetto tra gli utenti della rete. Come adulti abbiamo un compito in più, quello di vigilare ed accompagnare i nuovi abitanti di questo sterminato ambiente digitale, per limitare al minimo le devianze ed evitare che qualcuno si ferisca o ferisca il prossimo.

     

    La prossima volta che ci capiterà di regalare il tanto atteso smartphone a nostro figlio o a nostro nipote, facciamolo, ma coscienti delle possibilità in esso racchiuse e desiderosi di crescere assieme come cittadini responsabili.

     

    don Pietro

  • Trarre fuori

    Ogni tesoro è custodito in un luogo segreto,
    per raggiungere le gemme più preziose si deve scavare a lungo,
    avere pazienza, impegnarsi in un’incessante discesa
    per portare alla luce ciò che mai ha visto la luce.

     

    Trarre fuori (educĕre): questa l’etimologia di educare.

    Mi domando se crediamo sia ancora possibile educare le nuove generazioni o forse lo reputiamo un’utopia perché abbiamo smesso di credere che esse custodiscano qualcosa dentro di loro che va tirato fuori. Forse dobbiamo pulire le lenti con le quali guardiamo ai più giovani, talmente annerite dalle delusioni e dalle arrabbiature che non ci permettono di andare oltre quella corazza che ognuno di noi ha indossato negli anni duri della crescita.

     

    Nella sfida educativa non bisogna mai arrendersi perché volente o nolente il futuro appartiene a loro, a quei ragazzi che a volte paiono persi tra la noia e l’apatia, a quei bambini che troppo spesso vengono lasciati a giocare, per ore in qualsiasi contesto, con lo smartphone di mamma e papà purché stiano tranquilli. Queste generazioni hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a capire come può essere la loro vita nel momento in cui si inizia ad essere protagonisti, quando si realizza chi possono essere, quando si scoprono le proprie potenzialità.

     

    Proviamo a pensare all’emozione provata quando siamo stati capaci di realizzare qualcosa, quando abbiamo superato una prova nel nostro iter scolastico o lavorativo; in ognuna di queste occasioni abbiamo scoperto di custodire in noi qualcosa che ci ha permesso di raggiungere quella meta. Qualcuno ci aveva educato e senza rendercene conto era proprio grazie a quel trarre fuori che stavamo gustando una grande gioia.

     

    Come dice lo stesso nome, la sfida educativa è tutt’altro che facile, implica una lotta, uno scontro che porta con sé battaglie vinte e battaglie perse, una fatica che non siamo sempre pronti a sostenere. Considerando anche questi aspetti è utile sostenersi a vicenda in quanto educatori/genitori/guide per riaccendere ogni giorno in noi la forza richiesta per non tradire il nostro ruolo e non abbandonare il futuro.

     

    don Pietro

     

    Dal 21 al 31 gennaio vivremo la settimana dell’educazione, proprio per questa ricorrenza la Comunità Pastorale offrirà due importanti occasioni di formazione per tutti i genitori e gli educatori. La prima sarà domenica 29 gennaio alle ore 15.30 presso il teatro Il Centro, nella quale la dottoressa Chiara Biader ci parlerà di relazioni, affetti e sessualità nella complessa società contemporanea nell’incontro dal titolo “Le nuove teorie educative e la proposta cristiana”. La seconda occasione sarà giovedì 9 febbraio alle ore 21.00 sempre presso il teatro Il Centro, quando il dottor Pier Cesare Rivoltella ci parlerà di Cyberbullismo: conoscere, prevenire e intervenire.

    Non lasciamoci sfuggire questi momenti per riportare alla luce in noi la bellezza dell’educare.

  • POVERI NOI

    Il 17 ottobre è stato presentato il rapporto Caritas 2016 su povertà ed esclusione sociale dal titolo “Vasi comunicanti”, in passato non mi ero mai soffermato attentamente su questo genere di indagine, ma questa volta un dato allarmante ha attirato la mia attenzione. In Italia oggi la povertà assoluta risulta inversamente proporzionale all’età, diminuisce all’aumentare di quest’ultima: tocca la drammatica vetta del 10,2% nella fascia 18-34 anni, per poi decrescere costantemente fino al dato minimo del 4% relativo agli over 65. Un giovane come me non può restare indifferente di fronte a questi numeri: pensare al grado di povertà nel quale versano coetanei è qualcosa che mi spinge a chiedermi quali siano le cause di una tale situazione e, forse ancora più gravi, le conseguenze.

     

    Se la causa maggiore è la persistente crisi del lavoro, che pare proseguire nonostante gli spiragli di luce che si intravedono nelle statistiche riportate dai telegiornali, sono sicuramente più preoccupanti le conseguenze delle difficoltà che colpiscono i giovani italiani. Papa Francesco riflettendo su questo tema ha detto: “Quando non c’è lavoro a rischiare è la dignità, perché la mancanza di lavoro non solo non ti permette di portare il pane a casa, ma non ti fa sentire degno di guadagnarti la vita! Oggi i giovani sono vittime di questo”. Parole chiare ed esplicite che ci permettono di capire quanto in profondità si protragga l’ombra creata dall’instabilità che viviamo.

     

    In passato il delicato momento dell’immissione nel mondo del lavoro costringeva i giovani a fare alcuni sforzi e sacrifici, ma permetteva di raggiungere l’indipendenza economica e di provare la gioia di nuove soddisfazioni; ora si è portati a vedere un impiego come qualcosa di elitario, per pochi fortunati, si è disposti ad accettare occupazioni occasionali senza la minima previdenza sociale, si è incapaci di progettualità, di fiducia nel futuro. Fortunatamente questa non è la situazione generale dei giovani in Italia, ma il dato evidenziato dal rapporto Caritas ci fa capire che è lo stato in cui vivono troppi di essi.

     

    Quando è in gioco la dignità della persona, ogni aspetto della sua vita rimane coinvolto: il futuro non rappresenta più una possibilità da scoprire, ma una lotta da affrontare; il matrimonio non è più un SI carico di responsabilità e di gioia, ma un di più non necessario; una nascita non è più un dono da accogliere, ma qualcosa da rimandare a tempi migliori.

    Ora più che mai c’è bisogno di politiche capaci di cambiare le carte in tavola, favorire condizioni che possano far diminuire la povertà giovanile, non perché questa sia più importante dello stato di salute degli adulti, ma perché i giovani tornino ad essere il carburante che alimenta l’industria del Paese, la lente che permette di vedere le possibilità nascoste nel domani.

     

    Avere fede non è indifferente per affrontare le difficoltà dell’oggi. Chi crede riesce più facilmente a tornare ad avere fiducia in sé, perché è sicuro di essere innanzitutto destinatario della fiducia di Dio.

    don Pietro

  • Il vero cemento

    24 agosto 2016, 3:36:32, nel cuore di una notte estiva come tante, un rumore assordante, pietre che precipitano come pioggia, una marea asfissiante di polvere, poi le urla.

     

    Così il nostro Paese viene sconvolto dalla tragedia di un terremoto che porta via con sé paesi, case e quasi 300 vite umane. Il tempo per alcune persone si blocca in quei drammatici momenti e sembra non ci sia modo di farlo ripartire. Lo sguardo del mondo si volge verso il cuore dell’Italia e inizia ad attivarsi la catena d’aiuti, donazioni e iniziative volte a permettere un ritorno più rapido possibile alla vita.

     

    Come ha detto il Vescovo di Rieti, Domenico Pompili, occorrerà molto tempo per la ricostruzione, ricostruzione che significa far rivivere una bellezza della quale siamo custodi. Occorre trovare il cemento giusto per attuare questa riedificazione, non basterà rafforzare lo spazio tra un mattone e l’altro, non sarà sufficiente rendere agibili case ed edifici, serve permettere alla vita di tornare ad abitare i luoghi devastati. Chi è stato colpito personalmente dal sisma, chi si è visto andare in frantumi davanti agli occhi tutto quello che aveva, chi ha vissuto il dramma di rimanere con la vita imprigionata per interminabili minuti al buio sotto un cumolo di macerie; com’è possibile ripartire? La prima tentazione è quella di utilizzare Dio come capro espiatorio, addossargli le motivazioni più assurde per ciò che è accaduto. Poi c’è la rabbia cieca che incendia e fa puntare il dito contro tanti possibili responsabili, ma non permette di fare nulla. Ancora più drammatico chi, insensibile, sfrutta le disgrazie per facili guadagni e non è toccato dalle lacrime altrui pur di arricchirsi.

     

    Tragedie come questa toccano il cuore di una nazione intera e possono essere la dolorosa occasione per riscoprire valori che comunemente fatichiamo a vivere, come l’umiltà: la capacità di fare quanto ci è possibile senza avere la necessità di un ringraziamento pubblico, senza essere al centro dell’attenzione, perché abbiamo riconosciuto che al centro della storia c’è Qualcun altro. Incontriamo l’umiltà nel volto dei tanti soccorritori, nelle mani sporche dei volontari, nei cuori agitati di chi ha donato qualcosa attraverso i tanti canali attivi o lo farà nelle varie collette.

    Riemerge il valore della comunità, una comunità ampia che racchiude gli abitanti di una nazione, un popolo che ha bisogno di stringersi ed abbattere le fragili barriere al suo interno per poter sostenersi, per tornare a camminare. Di fronte al bisogno ci si riconosce fratelli, magari non lo si esprime alla stessa maniera, ma tutti siamo più simili, perché tutti fragili di fronte a forze più grandi di noi.

    Proprio per questa fragilità creaturale il cuore dell’uomo ha sete di Dio, ha bisogno di fede, di incontrare nuovamente Colui che può ristorare la nostra vita, di abbracciare Colui che accoglie i nostri cari, di aggrapparsi a quell’unica roccia che nessun terremoto o catastrofe naturale potrà mai frantumare. Ascoltiamo questa sete che è dentro ogni uomo, smettiamola di tentare di sanarla con ciò che non disseta, non continuiamo a fissarci allo specchio sicuri che basterà impegnarsi al massimo per superare ogni problema grazie alle nostre forze, non cerchiamo di dimenticarcene voltando lo sguardo lontano ancora una volta.

     

    Sì la terra tremerà nuovamente prima o poi, ma adesso è il momento di scegliere il cemento col quale edificare la nostra vita.

    don Pietro