Un’affermazione come questa sembra anacronistica nel tempo in cui ogni forma di patto è siglata da forme, garanzie, interventi di specialisti di varie discipline giuridiche.
È ancora possibile fidarsi delle proprie e altrui scelte?
È possibile, pur con i dovuti accorgimenti, rimanere fedeli alla parola data?
Se osserviamo la vita di molti uomini e donne possiamo, senza essere ingenui, riconoscere che la fedeltà alla parola data, agli impegni presi, alle responsabilità assunte, è molto più diffusa di quel che pensiamo. Molti giovani vivono la fedeltà nel percorso di preparazione scolastica e professionale.
Non pochi adulti sono fedeli alla parola data al proprio sposo o alla propria sposa.
Un numero considerevole di insegnanti, educatori e genitori non si sottraggono al compito educativo ed evitano di abbracciare luoghi comuni, per privilegiare l’ascolto della vita e delle situazioni concrete in cui ci si viene a trovare.
Infine, la maggior parte degli anziani vive la fedeltà al quotidiano, spesse volte segnata dalla fatica del venir meno delle forze.
In tutto questo, Dio continua ad essere fedele?
Nell’avvicinarsi del Natale di Gesù, intuiamo che Dio è fedele perché: “nel portare a compimento la sua missione, Gesù ci ama sin dal momento della sua nascita e fino alla fine”, cioè fino al dono totale della sua vita per annunciare che il suo Amore è fedele, è per sempre.
Se questo è percepito, allora la fedeltà è la via di una vita riuscita, meglio felice.
Accettarsi come siamo, con il nostro carattere, le nostre capacità e attitudini, la nostra sensibilità ed emotività, è segno di maturità umana. Come si concilia questa necessità con l’invito evangelico alla conversione?
A volte si pensa che conversione sia sinonimo di cambiamento radicale nella direzione di marcia.
In realtà, l’invito alla conversione, che scaturisce dal Vangelo, è cambiamento e verifica delle prospettive con cui stiamo al mondo.
In altre parole: da chi mi lascio orientare come uomo o come donna?
Dove trovo ispirazione al mio agire quotidiano? Nella lettera ‘Laudato si’ il Papa afferma: “L’accettazione del proprio corpo come dono di Dio è necessaria per accogliere e accettare il mondo intero come dono del Padre e casa comune…”
Lasciarsi orientare e ispirare nella vita ha a che fare, quindi, con la propria libertà.
La libertà che genera relazione e vita buona non è quella incentrata su di sé, ma aperta al dialogo con i fratelli e le sorelle.
Si può allora riconoscere che la via che libera e matura è quella che passa dall’accettazione di sé dentro la consapevolezza che l’amore di Dio ci vede sempre e comunque come figli. Un uomo e una donna maturi sono realmente educatori perché, provati loro stessi dalla fatica e dalla gioia di accogliersi come figli di Dio, non temono di accompagnare, volendo bene in modo libero e disinteressato ai più giovani, sapendo indicare la via dell’Amore che si incarna in una storia concreta e precisa.
Non mancano certo buone notizie anche nel tempo in cui viviamo. Molti uomini e donne di ogni età vivono la vita come un dono ricevuto e, perciò, sono pronti a donare a loro volta.
Lo fanno nei modi e nei luoghi più diversi della quotidianità: la famiglia, la scuola, il lavoro, le associazioni di volontariato, la comunità pastorale, l’impegno nel sociale e in tante altre situazioni di vita.
Eppure, di fronte ai tanti motivi di stupore per il bene che si comunica, non si può rimanere insensibili alle varie forme di tristezza che vanno emergendo.
A volte è il disagio di un adolescente che non trova motivi per affrontare un percorso scolastico in vista di un impegno nel futuro prossimo; altre volte, è una indecisione talmente paralizzante da non favorire la scelta di sposarsi e di generare vita.
In alcuni casi, è la paura a rispondere ad una chiamata ad essere prete o a intraprendere il cammino verso varie forme di consacrazione.
E, infine, non possiamo dimenticare un senso di frustrazione che percorre la vita di alcune persone più avanti negli anni, perché si sentono inutili e senza più futuro. Senza voler essere sbrigativo o incapace di cogliere la complessità del presente, forse manca il respiro a noi gente di inizio secolo.
Manca una visione di insieme, capace di intuire da dove veniamo e verso dove siamo incamminati.
Tornare a scoprire che tutta la vita è percorso animato da una presenza che genera attesa, aiuta a giocarsi in ogni situazione non solo quando l’‘io’ è protagonista, ma nella quale Dio, il Dio incarnato, ci coinvolge.
Nelle situazioni più diverse della nostra giornata, incontriamo tanti sguardi. Lo sguardo della persona amata da una vita, di un figlio che chiede consiglio, di un papà o una mamma che si confrontano nel dialogo educativo, di un collega di lavoro che ha necessità di essere ascoltato, di un malato che cerca conforto. Il più delle volte, questi sguardi ci trovano attenti e sensibili.
Ma quando incrociamo lo sguardo di un povero che ci viene incontro, o che individuiamo ai lati della strada o di qualche piazza, dove volgiamo lo sguardo? Sappiamo, senza svilire la relazione, guardare negli occhi del povero o guardarlo negli occhi?
Il più delle volte il nostro sguardo cerca di rivolgersi altrove, di dimenticare chi è nella povertà, di pensare che ci sono problemi troppo ampi e complessi che non possiamo, né vogliono affrontare.
Il Papa, nel messaggio per questa giornata, ci invita a “non distogliere lo sguardo dal povero perché, nel più fragile, riconosciamo il volto del Signore Gesù”. In ogni persona e, in modo specifico, nel povero, noi possiamo imparare a “scuotere l’indifferenza e l’ovvietà con le quali facciamo scudo a un illusorio benessere”.
Volgere lo sguardo al povero è imparare a vedere con lo stesso sguardo di Dio che, in Gesù il Cristo, si fa vicinanza, cura, compassione, amicizia e servizio.
Ancora il Papa afferma che: “I poveri diventano immagini che possono commuovere per qualche istante, ma quando si incontrano in carne e ossa per la strada, allora subentrano il fastidio e la rassegnazione”.
La vicenda del Samaritano viene a ricordarci che è Cristo il Samaritano che si prende cura del povero, dell’uomo fragile e affaticato e che, in tal modo, Dio invita ciascuno di noi a fare come Lui.
È il Vangelo: “Come ho fatto io, fate anche voi”.
La cura è allora un’arte: l’arte del discepolo che ama come Lui ha amato noi
Ad ogni ritorno di una festa cristiana, come Tutti i Santi o la Commemorazione dei defunti, viene da domandarsi quali interrogativi emergono nel cuore e nella mente di un uomo e di una donna che oggi vivono una quotidianità attraversata da notizie che si alternano tra il racconto di drammi dovuti a guerre e violenze e la superficialità del gossip elevato al rango di informazione.
Ha un limite la vita degli uomini e delle donne, oppure non c’è limite al male, come non c’è limite alla superficialità?
Ha un senso camminare alla ricerca di un obiettivo da raggiungere nella vita, e questo obiettivo ha un nome, un volto, una vicenda raccontabile e credibile?
È proponibile vivere con piena responsabilità i nostri giorni su questa terra, sapendo che ‘la nostra patria è nei cieli’?
Tante domande, che si intersecano e si intrecciano ma, attraverso queste domande, emerge anche un bisogno sempre più intenso, il bisogno di trovare ragioni in cui sperare.
Scrive Adrien Candiard: “Sperare, nella pratica, non è soltanto credere che siamo esseri capaci di eternità: è vivere preferendo l’eterno al resto, facendo passare l’eterno al primo posto, prima di ciò che è urgente […] Sperare significa adottare il punto di vista dell’eternità: non un punto di vista freddo e lontano ma, al contrario, il punto di vista dell’amore”.
È guardare alla concretezza della vita del Santi, che amano perché credono e vedono “Dio faccia a faccia”.
È lasciarci interrogare dal silenzio e dall’assenza visibile dei nostri cari, che hanno già attraversato la morte per sperimentare che sono nella pienezza della vita. È vivere la speranza che è molto di più dell’ottimismo.
Nel corso della storia, purtroppo, ci sono stagioni dove la pace è realtà e altre dove, invece, è assente o, perlomeno, precaria. Forse non si è mai vissuto un secolo senza guerre, almeno locali.
Eppure, negli ultimi anni, il grido “Domandate pace per Gerusalemme” (Salmo 122,6) e per il mondo intero, si è fatto sempre più urgente.
Se è vero che in ogni guerra c’è un aggressore e un aggredito, è altrettanto vero che la pace non si può raggiungere quando il commercio delle armi e gli interessi economico – finanziari hanno preso il posto del dialogo.
Il più delle volte nasce un interrogativo: e io cosa posso fare? Non abbiamo certo soluzioni da offrire, ma c’è un linguaggio da stemperare perché venga abbandonato, dei sentimenti di rivendicazione da allontanare perché prevalga la ricerca di relazioni sincere e leali, delle informazioni volutamente inneggianti la vendetta da evitare, per non accrescere forme di giustizia sommaria e altrettanto distruttiva della dignità delle persone.
Questo esercizio di ricerca della pace lo possiamo fare tutti.
Il Presidente della Conferenza dei Vescovi italiani ha scritto al riguardo un pensiero che si presenta molto concreto e attuabile:
Pace! E’ quella che chiediamo e che diventa impegno e responsabilità, perché non si chiede pace se nel cuore ci sono sentimenti di odio, di violenza e non si chiede quello che non vogliamo vivere a partire da noi. Tanti ‘artigiani di pace’ aiuteranno gli attuali, troppo pochi, ‘architetti di pace’, cioè chi costruisce ponti e non muri, alleanze e non conflitti. Cerchiamo pace, perché non c’è futuro con la violenza e con la spada”.
Anche questo cercare pace è andare in tutto il mondo e annunciare la buona notizia che ”Beati sono gli operatori di pace”.
Riportiamo l’omelia della Messa d’ingresso che mons. Mauro Barlassina, nuovo responsabile della Comunità Pastorale di Santa Teresa di Gesù Bambino, ha rivolto ai fedeli della città di Desio in occasione della festa patronale della Madonna del Rosario.
In questi giorni, entrando in Basilica e fermandoci qualche minuto per la preghiera, quasi spontaneamente siamo attratti dal volto della patrona della nostra Comunità Pastorale: Santa Teresina.
Anch’io ho osservato il ritratto che sta davanti ai nostri occhi e, pur conoscendo le fatiche e la lotta interiore vissuta da questa piccola grande donna, sono rimasto affascinato dallo sguardo puro e pacificante che traspare. Qual è il segreto che sta all’origine della confidenza assoluta di Teresina in Cristo Gesù? Qual è il segreto che sostiene il cammino della Comunità cristiana in questa città?
Rileggendo la pagina biblica di questa prima domenica di ottobre, è possibile individuare dove sta il segreto di una Chiesa che, pacificata, sa vivere e trasmettere fiducia e speranza anche in un tempo di complessità.
Il primo segreto è la centralità dell’ascolto della Parola di Dio che plasma il nostro cuore e lo rende capace di amare nella modalità di un amore che si dona. Come ci ricorda il nostro Arcivescovo, il Cristiano che ascolta e si nutre quotidianamente della Parola di Dio è colui che impara a “vivere di una vita ricevuta”. Santa Teresina, gradualmente, arriverà a vivere la confidenza totale nell’amore di Dio perché scoprirà che la sua vocazione è l’amore che si dona e che non cerca riscontri e conferme.
Il nostro concittadino Pio XI, nell’omelia per la canonizzazione di Teresina, dà un nome preciso a questo ascolto della Parola che genera Amore che si dona, quando afferma: “Oggi ci auguriamo che nei discepoli di Cristo si instauri un certo desiderio di praticare l’infanzia spirituale vissuta da Teresina, la quale consiste in questo: che tutto ciò che il fanciullo fa e pensa per immediatezza, anche noi lo facciamo per esercizio di virtù”.
Dal primo segreto ne scaturisce un secondo intimamente legato, perché ascoltare la Parola e coltivare una relazione quotidiana con Gesù e, attraverso Gesù, con ogni altra persona, non è semplicemente cercare di volersi bene o di andare d’accordo, ma “amarsi come Cristo ci ha amati”. È vivere nella relazione di un Amore che si dona.
A volte si obietta l’impossibilità di vivere tale Vangelo, mentre un altro nostro concittadino (don Luigi Giussani), ha più volte ricordato che: “non è realistico che l’uomo viva senza agognare (cercare) l’impossibile, senza questa apertura all’impossibile”.
E se questo vale per tutti, è anzitutto per noi preti, per i diaconi e le consacrate perché, come afferma don Tonino Bello: “Chi si alza dalla tavola dell’Eucaristia deve ‘deporre le vesti’. Le vesti del tornaconto, dell’interesse personale, per assumere la nudità della comunione.
Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza”. Il messaggio che ci viene dalla Parola è limpido, coinvolgente e permette di individuare alcune priorità per il cammino comune alle nostre Parrocchie dentro la città:
siamo chiamati nel concreto a non agire da singoli ma in comunione, a scegliere di affrontare le sfide dell’annuncio insieme, a passare dall’io al noi;
siamo chiamati nel concreto a dare priorità all’ascolto della Parola che ci permette di entrare in dialogo con tutti e con ogni situazione umana, rimanendo nella verità di chi è radicato nell’Amore che si dona;
siamo chiamati a intercettare le domande della gente come Comunità cristiana, senza pregiudizi e preoccupazioni, intuendo che, cambiare alcune forme nella vita pastorale, non è rinunciare al Vangelo, ma vivere il Vangelo dentro la storia di oggi e continuare ad offrire la buona notizia in un tempo di profonde trasformazioni;
siamo chiamati a deporre le divisioni, ad abbandonare ogni forma di rivalità per lavorare insieme in un progetto comune, che è la gioia del Vangelo che ci fa uomini e donne di speranza.
Concludo con un’altra riflessione di don Tonino Bello: “Gareggiamo nello stimarci a vicenda. Portiamo il peso uni degli altri […] L’olio profumato della comunione ci faccia camminare insieme e ci raccolga a tavola insieme”.
Maria, Vergine del Rosario, Madre della fraternità degli apostoli, prega per noi e per tutta la Chiesa all’inizio del Sinodo, in comunione, partecipazione e missione.
In questi giorni, la nostra città vive una delle sue feste più importanti, certamente la più significativa, non solo per la parrocchia dei Santi Siro e Materno ma per tutta la Comunità cristiana che vive nel territorio.
È la festa, popolarmente denominata, del “Madunin”. Nei giorni di questa festa ricordiamo anche Santa Teresa di Gesù Bambino, scelta nel 2010 come patrona del cammino comune delle nostre cinque Parrocchie.
Se al centro della festa c’è sempre Cristo, il Crocifisso Risorto, ad accompagnarci sempre di più verso di Lui sono due donne, Maria, la madre e una piccola – grande donna.
Qual è il senso più profondo di questa coincidenza? Qualche giorno fa l’Arcivescovo ha pubblicato la proposta pastorale per l’anno 2023- 24 dal titolo “Viviamo di una vita ricevuta”.
Intravedo il legame tra la nostra festa, Maria di Nazareth e Santa Teresina proprio nell’invito a riconoscere che tutto è dono, che la nostra vita è ricevuta e perciò accolta. È Maria che, ricevendo il dono di essere la Madre Vergine, accoglie il Dio con noi ma non lo trattiene per sé. È Santa Teresina che, pur nel travaglio delle sue tante prove e fatiche non si ripiega su se stessa, ma si riconosce talmente debitrice di quanto ha ricevuto da Dio da arrivare ad affermare che “la sua vocazione è l’Amore”. Termino queste poche righe augurandomi e pregando perché la Comunità cristiana che vive a Desio sia sempre più capace di annunciare che “Gesù è vivo e la sua presenza e la sua Parola, il dono dello Spirito Santo non sono verità da affermare solo con un assenso intellettuale e verbale, ma sono modalità con cui siamo chiamati per nome”. Questa gioia di essere i figli e fratelli discepoli ci permette di dialogare con tutti e incontrare ogni situazione.
Oggi le comunità cristiane di tutta la diocesi di Milano sono in festa per celebrare l’inizio di un nuovo anno pastorale! Con che coraggio in un mondo con così tanti problemi e sofferenze dovremmo fare festa?
Facciamo festa perché possiamo ricominciare a condividere cammini che ci aiutano a conoscere Gesù e a crescere come persone per diventare, come direbbe don Bosco, buoni cristiani e onesti cittadini. Possiamo ricominciare a vivere e condividere cammini e di questo siamo grati al Signore e a chi ci accompagnerà. Facciamo festa per ringraziare!
Facciamo festa perché è un nuovo inizio e, come ogni nuovo inizio, porta sempre con sé tanta speranza! La speranza nasce in noi dal bisogno e dal desiderio di trovare, anche quest’anno, quella bontà e quella bellezza, nelle relazioni e nelle esperienze, che riempiono di bene e di gioia il nostro cuore e la nostra vita! Facciamo festa per condividere la speranza!
La gratitudine e la speranza ci riempiono di entusiasmo. Un entusiasmo chevorremmo trasmettere e condividere con più persone possibili, perché anche loro possano gustare la bellezza di una vita più bella, di una vita colma di amore, pace e gioia!
Il tema dell’anno oratoriano è “pieno di vita”!
Mi piacerebbe che fosse il desiderio di tutti.
Mi piacerebbe che fosse una promessa che ciascuno sente rivolta a sé.
Mi piacerebbe che fosse la caratteristica di tutte le esperienze che vivremo.
Mi piacerebbe che fosse il motivo della nostra gratitudine!
Mi piacerebbe che traboccando dai nostri cuori, questa pienezza di vita, trasparisse dai nostri sguardi e dai nostri gesti!
Oggi per noi questo nuovo inizio è caratterizzato da buone novità!
Nella nostra comunità stiamo accogliendo il nuovo parroco, don Mauro, un nuovo vicario parrocchiale, don Marco, una nuova ausiliaria, Liliana. Di questi tempi non è per nulla scontato che ci siano ancora preti e suore mandati per le nostre comunità! Siamo davvero grati al Signore per il loro arrivo! Siamo grati anche a loro perché, con il loro desiderio di camminare e di aiutarci, stanno già dando nuovo slancio alle nostre comunità!
Abbiamo tanti motivi per fare festa! Allora facciamo festa! Ma soprattutto che la vera festa sia la gioia che sperimenteremo per la vita piena che il Signore ci promette!
Ogni città e ogni paese ha le sue caratteristiche e tradizioni.
Nella nostra città non si può dimenticare un aspetto che potrebbe sembrare solo folcloristico ma che, in realtà, dice molto di più: le campane della Basilica. Sicuramente molti, anche tramite youTube, hanno avuto la possibilità di sentire il suono delle nostre campane. Personalmente sono rimasto favorevolmente colpito quando ho saputo che c’è un gruppo, e tra questi non pochi giovani, che in alcune occasioni dell’anno tornano a dare voce al loro suono armonioso con la forza dei muscoli ma, ancor più, con l’arte che chiede la realizzazione di un vero e proprio concerto.
Viene spontaneo chiedersi quale messaggio offre un concerto campanario.
Ho trovato, e le propongo all’attenzione di tutti, almeno queste caratteristiche:
un concerto campanario, per essere ben realizzato, richiede anzitutto una buona intesa tra i campanari, perché solo così sa parlare con l’armonia dei suoni
perché ci sia armonia nei suoni è fondamentale che ci sia una buona sincronia tra chi realizza il concerto
non tutti muovono le stesse campane, ma ogni campana è necessaria per dare voce alla festa e rendere piacevole il concerto.
Di conseguenza, è necessaria la complementarietà tra gli attori. Questo significa che non tutti producono lo stesso suono, ma ogni suono è necessario alla riuscita del concerto.
Senza pretesa di completezza, le campane della nostra Basilica e delle Chiese della nostra città non vogliono “dare disturbo”, ma suggerire che c’è un modo di vivere dove il contributo specifico di ciascuno è indispensabile per il bene di tutti.
don Mauro
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