Categoria: Editoriali

  • In cammino nella città

    In cammino nella città

    Il riferimento al camminare è sempre più frequente. A volte con buone ragioni, altre senza riferimenti precisi. Cammino a partire da dove, per andare verso quale meta, accompagnati da altri o in solitudine?

    Mentre pensavo a queste domande ho riletto il nome completo del nostro notiziario: Comunità in cammino.

    Nella completezza del titolo si coglie immediatamente che non si tratta di un cammino insensato ma compiuto insieme, come comunità di uomini e donne che vivono la città, alcuni di questi seguono come discepoli Gesù di Nazareth, il Dio con noi. E tra questi un certo numero vorrebbero praticare la fraternità
    e, pur consapevoli dei limiti, sono sostenuti dalla certezza che la Grazia di Dio continua ad agire.

    Uomini e donne che camminano insieme come discepoli e, proprio per questo, alla ricerca di un dialogo con tutti e con tutte le componenti della città. Introducendomi in punta di piedi nel cammino di questa città riconosco come scelta sapiente di imparare ad ascoltare, di favorire l’ascolto reciproco, di tessere relazioni buone capaci di stemperare i sempre più diffusi conflitti che rischiano di impedire quell’amicizia
    civica che genera futuro e costruisce città vivibili. Mi permetto di citare quanto papa Francesco diceva della nostra patrona S. Teresa perchè fa pensare tutti, credenti e pensanti: “è una delle Sante che più ci parla della grazia di Dio di come Dio si prende cura di noi, ci prende per mano e ci permette di scalare la montagna della vita se solo ci lasciamo trasportare da Lui”

    Con riconoscenza e in cammino come comunità.

    don Mauro

  • La GMG di Lisbona nelle parole di Gianni Borsa

    La GMG di Lisbona nelle parole di Gianni Borsa

    LA GMG DI LISBONA NELLE PAROLE DI GIANNI BORSA
    PRESIDENTE DIOCESANO DI AC

    A Lisbona sono arrivati centinaia di migliaia di giovani da ogni angolo del mondo: dalle metropoli nordamericane ai villaggi nigeriani o indiani, dalle periferie italiane a quelle colombiane, da Lusaka
    come da Kiev, senza escludere cinesi, ivoriani, neozelandesi, salvadoregni…

    Ognuno fatto a suo modo. Per età, lingua e cultura, per hobby e per titolo di studio; alcuni lavorano, altri di lavoro non ne trovano. Certi vivono in famiglia, altri una famiglia non l’hanno mai avuta (o, in qualche caso, ne avrebbero fatto volentieri a meno).

    Anche su vita e fede sembrano avere idee e “pratiche” ben differenti tra loro. C’è il parrocchiano siciliano e l’oratoriano piemontese; la ragazza brasiliana che racconta di dover attendere, per una messa, un prete che arriva da lontano nella sua chiesa nella foresta; c’è il belga che frequenta studi teologici ma si dice “solo”, senza una comunità attorno, con cui condividere la fede. Ci sono giovani cresciuti in Paesi nei quali il cristianesimo è maggioritario, altri in cui è fortemente minoritario, talvolta persino ostracizzato,
    se non perseguitato. Poi c’è il palestrato, la suonatrice di flauto, la sciatrice, la rammendatrice, il garzone di negozio che gioca a pallone.

    E poi li osservi, lì, in gruppo: quelli disinibiti, i taciturni, i “capipopolo”, quelli che stanno sempre in seconda fila, forse timorosi o con una scarsa considerazione di sé. Il Papa li sta incoraggiando: “nella Chiesa c’è posto per tutti”. Come dire: al Signore piaci così come sei, impara a voler bene a te stesso, e a voler bene a chi incontri nella tua vita.

  • Mons. Delpini e i giovani

    Mons. Delpini e i giovani

    Vorrei partire dall’incanto e dallo spavento di avere 15 anni, con le sue domande inquietanti e inevitabili su come meritare la stima degli altri, come farcela a vivere in questo mondo, come amare.

    La domanda che mi pongo spesso è come può nascere nei ragazzi il desiderio di crescere se gli adulti sono così scontenti. Se anche facciamo moltissime cose buone per loro, come potranno desiderare di essere un padre, una madre, un prete? Occorre stimolare il protagonismo intergenerazionale, perché gli
    adolescenti si sentano responsabili dei loro coetanei e i più grandi dei più giovani.

    Pensiamo, ad esempio, agli oratori che non sono una bolla privilegiata nella realtà giovanile così come viene descritta normalmente, ma un laboratorio interessante in cui il protagonismo dei ragazzi si fa
    responsabilità. Forse le amministrazioni comunali, la scuola e altre agenzie, possono promuovere eventi che facciamo emergere il gusto dei ragazzi di fare cose belle.

    Vi sono dimensioni della vita di un ragazzo o di una ragazza che non si possono censurare. La prima è la dimensione religiosa dell’adolescente: le domande sulla morte, la vita, l’amore, a cui solo Dio può dare
    risposta, meritano di essere considerate. Abbiamo una parola da dire che dà speranza, mentre ora la speranza pare proibita e sembra che non si possa parlare di Dio in una società laica. Inoltre, c’è la dimensione affettiva.

    Abbiamo bisogno di persone che siano capaci di ascoltare i ragazzi sulle cose fondamentali.

    Mons. Delpini e i giovani, ai Sindaci del Monzese, 30 giugno 2023
  • Vacanze insieme

    Vacanze insieme

    Un paio di settimane fa mons. Mario Delpini ha visitato in Valtournenche (AO) i campeggi degli
    oratori di Legnano e Rescaldina.

    Per chi è più in là con gli anni, il pensiero va con nostalgia a quando i campeggi erano davvero tali,
    sotto le tende e senza le comodità di un albergo (quante ore ad aspettare che il boiler riscaldasse di
    nuovo l’acqua per potersi fare almeno la doccia dopo ore di camminata in montagna!).

    Trovo particolarmente illuminanti alcune parole che l’Arcivescovo ha rivolto alle ragazze e ai ragazzi
    dei campeggi: «Il campeggio è come partire per un viaggio alla scoperta di sé, è come partecipare a
    un piccolo laboratorio che può diventare una storia vocazionale, permettendo di interrogarsi – una
    volta tornati a casa – sulla propria vita. Vi consiglio di andare all’oratorio o al campeggio perché qui
    siete insieme tra voi e c’è Gesù. L’oratorio è, prima di tutto, un’iniziativa della parrocchia per parlare
    del Signore, non è un campo da gioco o un modo per fare sport. Queste tre parole le trovate solo in
    oratorio e nei campeggi: si sta insieme, si impara a conoscere Gesù e si fa esercizio al servizio della
    gioia».

    Da oggi partono le settimane di “vacanza insieme” dei nostri ragazzi: quelle parole sono anche il
    nostro programma e la nostra ambizione.

    don Gianni

  • Naturalezza

    Naturalezza

    È giusta l’educazione ricevuta dai nostri padri e madri sul rispetto che si deve al luogo sacro: il segno della croce all’ingresso in chiesa; la genuflessione di fronte all’Eucaristia, segnalata dalla lampada rossa
    accesa; il clima di silenzio e la compostezza durante le celebrazioni. Il Concilio Vaticano II però ci ha educato anche a essere attivi nell’azione liturgica, sia mediante lo svolgimento di alcuni ministeri (non solo celebranti o diaconi, ma anche chierichetti, lettori, cantori, ministri della Comunione eucaristica o incaricati di portare i doni all’altare o di raccogliere le offerte tra i fedeli), sia partecipando convintamente
    alle preghiere, alle risposte, ai canti.

    Il modello – anche se a taluno può non piacere – è la tavola familiare dove c’è chi svolge delle mansioni e tutti intervengono volentieri nella conversazione, ma anche si fa attenzione che nessuno sia privo di cibo o bevande. In chiesa invece molti vivono una sorta di paralisi trascendentale, non tanto per onorare l’Altissimo, ma per terrore di venire troppo coinvolti. Talvolta, se propongo a qualcuno anche solo di portare all’altare il pane e il vino all’offertorio, vengo squadrato come se lo volessi associare a una spedizione di mercenari sanguinari, e alla fine si sottrae.

    Perché è così difficile vivere le celebrazioni con naturalezza, fratelli e sorelle premurosi uno dell’altro, seduti alla stessa mensa? Ed essere testimoni di fede: «Vedi? Anch’io prego con te e come te, con gioia!».

  • Noi e Voi

    Noi e Voi

    Capita, nel corso di una pacata discussione, ma più spesso in qualche acceso confronto, di sentir dire «noi sì, voi siete diversi». Magari l’interlocutore è una sola persona, ma viene automaticamente aggregata a un voi così preciso da coinvolgere in una pregiudiziale squalifica.

    Si comincia così nel caso più evidente di differenza – uomini e donne – per passare poi a tutta la gamma delle diversità etniche, culturali, religiose, regionali, sociali, politiche, professionali: noi e voi, noi e loro.

    Questa espressione, apparentemente superficiale, tradisce un retroterra mentale preoccupante: che l’appartenenza a un gruppo automaticamente designi modi di pensare e di comportarsi omogenei tra tutti i componenti i quali vengono accettati o respinti o derisi o condannati a priori, senza dare valore alle persone, ai loro percorsi, alle esperienze che le hanno segnate. L’altro lato della medaglia è che, ovviamente, chi appartiene ai noi si senta autogiustificato in tutti i suoi argomenti e spesso poco sfiorato dalla possibilità di tentare un’autocritica, o almeno una verifica dei propri convincimenti e delle proprie scelte.

    Quando il noi e il voi entrano nella Chiesa – noi preti, voi laici; noi catechisti, voi Caritas, noi tradizionalisti, voi progressisti; noi di un movimento, voi di un altro, ecc.–, è il momento di riformare non solo il linguaggio, ma anche il pensiero e lasciarsi riempire dall’intenzione e dalla preghiera di Gesù: «che siano perfetti nell’unità».

    don Gianni

  • Challenge

    Challenge

    Il fatto di Roma, quartiere Casalpalocco, è noto: durante un challenge, una potente auto ne ha investita una più piccola, causando la morte di un bambino e il ferimento di mamma e sorellina. Challenge uguale sfida: mettersi alla prova per vedere capacità di resistenza in prestazioni solitamente poco normali. Da sempre si parla di record e di Guinness dei primati per le cose più strane (la pizza più grande del mondo, la resistenza in una grotta…). Il challenge di cui parliamo però ha qualche novità: ripreso dai cellulari e ributtato sui social, dà notorietà, ebbrezza e talvolta anche guadagni. Inutile aggiungere che il più delle volte si tratta di esibire attività totalmente prive di senso. Il fine è incrementare il culto dell’apparire, così apprezzato e desiderato nel nostro mondo.

    Mentre i nostri “eroi” apparivano così sui social, centinaia di persone scomparivano letteralmente nel Mediterraneo, inghiottite dall’ennesima tragedia delle migrazioni. Per loro il challenge, la sfida contro le onde e l’ignoto, era questione di vita o di morte, non certo un divertimento.

    E tante altre persone ogni giorno affrontano sfide essenziali per la vita, il lavoro, la famiglia, la salute: non esibiscono i loro successi – se ci sono –, ma perseverano in fatiche quotidiane ed esigenti. La stessafede, soprattutto oggi, si presenta come una sfida, dove è molto più facile evadere che aderire. Nessuno può sottrarsi a qualche challenge, ma quello vero non ha bisogno di palcoscenico.

    don Gianni

  • Alienum a ratione

    Alienum a ratione

    Vero: oggi va di più l’inglese del latino e più o meno si dovrebbe tradurre out of mind. Ma l’originale latino appartiene a un’enciclica del 1963 scritta dal papa san Giovanni XXIII, che definiva così la guerra in un’epoca dove l’olocausto nucleare è sempre a un passo. Alienum a ratione si traduce letteralmente “fuori dalla ragione” e quindi, più efficacemente, “fuori di testa”. Sono stato a Nagasaki, la prima città cattolica del Giappone, distrutta dall’ordigno nucleare il 9 agosto 1945: l’onda d’urto della bomba arrivava come un vento micidiale a chilometri di distanza distruggendo tutto ciò che incontrava; i residui delle radiazioni hanno contaminato vite e ambienti per decenni. Non c’è luogo del mondo che non ricordi gli orrori della guerra con musei, monumenti, cimiteri. La lezione è che l’uomo ragionevole rifiuta la guerra, come dice saggiamente l’articolo 11 della Costituzione italiana: «L’Italia ripudia la guerracome strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

    Nobili propositi, dimenticati quando per orgoglio nazionale, opportunità o anche solo per ragioni di mercato, la guerra viene praticata e alimentata. Uno spettacolo che condiziona anche lo sguardo di chi, nelle famiglie e nelle città, pensa di farsi giustizia o di affermarsi mediante la violenza.

    Solo la voce del papa resta a condannare la guerra e a invocare la pace: ma lo trattano come se fosse lui alienum a ratione.

    don Gianni

  • Toccatemi/5 e fine

    Toccatemi/5 e fine

    Gesù risorto dice «Toccatemi» e prima si è fatto toccare da folle di malati, indemoniati, discepoli. Dopo l’Ascensione il corpo storico di Gesù è toccabile solo nei suoi segni: eucaristia, parola, comunità, poveri. Tutti elementi dotati di evidente concretezza: non suggestioni o emozioni, ma pane, acqua, olio, libri, persone, orari, ferite, organismi.

    Cosa li rende capaci di far toccare veramente Gesù a chi crede, e anche a chi non crede? La risposta è nel fatto che Gesù sceglie ancora di toccarci, di toccarci nel profondo, di permetterci di toccare noi stessi il nostro cuore, la nostra anima. Tutto questo avviene tramite lo Spirito Santo, il dono che permette più di
    ogni altra cosa di rendere l’uomo simile a Dio.

    Non interessano potenza, ricchezza, successo, simpatia, salute, appartenenza etnica, culturale,
    religiosa: Dio infonde il suo Spirito in coloro che sono non solo creature, ma figli e figlie. La Chiesa è lì per risvegliare in ciascuno di loro la consapevolezza di avere ricevuto questo dono grande, per poterne ricavare una vita perfetta, felice, divinizzata, a immagine di Cristo.

    Anche i credenti di lungo corso hanno bisogno di tornare a toccare nel profondo la propria anima e a lasciarsi toccare dallo Spirito. Come scrive sant’Agostino: «Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. Mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace».

    don Gianni

  • Toccatemi/4

    Toccatemi/4

    Ai discepoli Gesù Risorto dice «Toccatemi», ma precedentemente una donna gli aveva toccato il lembo del mantello per cercare guarigione. Gesù toccava i poveri e i malati, la lingua e le orecchie del sordomuto e metteva fango sugli occhi del cieco. Invitando a imitarlo, diceva per tutti: «Quello che farete a uno di questi piccoli, lo farete a me».

    Un episodio rilevante della conversione di Francesco d’Assisi è l’abbraccio al lebbroso.

    Dopo aver riconosciuto il corpo di Cristo nell’eucaristia, nella comunità e nella parola, è possibile immaginare che egli si lasci toccare nei poveri, nei malati, nei peccatori.

    Per alcuni è un’esperienza a portata di mano, perché dedicano tempo al volontariato, all’ascolto, all’assistenza. A Desio sono presenti Croce Rossa, Caritas, Missionari Saveriani, RSA “L’Arca” e una miriade di altre associazioni che promuovono piena umanità in persone colpite da difficoltà di ogni tipo.

    Ci sono anche povertà nascoste e non sempre possibili da cogliere esternamente, come il maltrattamento di donne e minori. L’impegno del volontariato è una forma di toccare Gesù.

    Ma lo è anche quella carità diffusa o “di pianerottolo”, che si fa solidale con il vicino anziano bisognoso di spesa, medicine, compagnia, o che si prende cura dei figli della vicina mentre è al lavoro o a sua volta assiste familiari nel bisogno.

    Anche il DONO DA CONDIVIDERE che oggi si avvia in tutte le parrocchie della città è un toccare Gesù, modesto quanto si vuole, ma efficace.

    don Gianni