Categoria: Editoriali

  • Toccatemi/3

    Toccatemi/3

    L’invito di Gesù Risorto – «Toccatemi» – non si limita al tatto: l’ascolto di una voce, di una parola, equivale al toccare, perché crea le stesse sensazioni, o ne procura di più profonde: fiducia, convinzione, sicurezza, tenerezza, stupore, dubbio, spavento, tristezza. Chi ascolta non resta uguale a prima. Questo accade anche di fronte alla parola di Dio, specialmente quando è la parola che i Vangeli mettono in bocca a
    Gesù.

    Quel «Toccatemi» equivale a dire «Cercate di ricordare tutto ciò che vi ho detto, perché la mia morte e risurrezione confermano le mie parole». Ed equivale anche ad affermare «Ricordatevi di ciò che ho fatto e fatelo conoscere, affinché il mio stile di vita diventi il vostro e quello di coloro che vi ascolteranno».

    Ascoltare la testimonianza dei discepoli sulle parole e opere di Gesù è infatti ascoltare Gesù stesso, un altro modo di toccarlo, di entrare in contatto con lui.

    Abbiamo nella Bibbia e specialmente nei Vangeli un tesoro straordinario per toccare Gesù, ma per molti cristiani resta ancora inesplorato, perché contenti di quattro idee imparate al catechismo dell’infanzia e
    magari di qualche bella predica ascoltata in un santuario o di qualche devozione ai santi. Cose buone, ma sotto la linea della sufficienza.

    San Gerolamo, traduttore delle Scritture dagli originali al latino, dichiarava: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo». Molti conoscono a memoria gli slogan pubblicitari o le canzoni di Sanremo: e i Vangeli?

  • Toccatemi/2

    Toccatemi/2

    Con l’invito ai discepoli – «Toccatemi» – e a Tommaso – «Metti qui il tuo dito…» – Gesù mostra il suo corpo. Oggi l’affermazione Il corpo di Cristo accompagna la distribuzione della comunione eucaristica, mentre nella Chiesa degli inizi l’espressione corpo di Cristo indicava la comunità dei credenti, la Chiesa, quelli che ad Antiochia cominciarono a essere chiamati cristiani.

    Se non a tutti, per motivi personali o morali, è possibile ricevere e toccare il corpo di Cristo eucaristico, tutti i battezzati sono parte del corpo di Cristo comunitario, ecclesiale.

    Nel tempo della separazione tra io e noi – la nostra epoca segnata dall’individualismo – anche la comunità cristiana soffre vedendo che molti abbandonano la fede stessa mentre altri (non tutti!) vivono una sorta di chiusura nella propria privata pratica di fede e frequentano le chiese sullo stile delle stazioni di servizio.

    Toccare il corpo di Cristo, che è la Chiesa, significa anzitutto riconoscere la dimensione comunitaria della fede: il Buon Pastore conosce a una a una le sue pecore, ma ne fa un popolo fraterno, solidale. Un popolo dove il servizio reciproco in nome della carità, il sentirsi corresponsabili dell’annuncio cristiano, la disponibilità a occasioni di fraterno incontro, il sostegno alla testimonianza di chi è in prima linea nei campi difficili del lavoro, della cultura, della politica, dell’educazione, sono una forma del toccare e far toccare il bellissimo corpo di Cristo, la sua Chiesa.

    don Gianni

  • Toccatemi/1

    Toccatemi/1

    Nel vangelo di Luca Gesù Risorto si presenta a discepoli sconvolti e pieni di paura: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi»; nel testo di Giovanni invita Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco». Gesù chiede di essere toccato: un gesto che, se non autorizzato, infastidirebbe e potrebbe persino apparire indizio di violenza. Con
    Gesù invece è indizio di riconoscimento e riaffermazione di fede.

    Un tocco che riserviamo al suo corpo è certamente quello dell’Eucaristia: prese il pane nelle sue mani – ma ora le mani sono quelle del sacerdote celebrante – e disse: «Questo è il mio corpo»; un corpo distribuito ai discepoli dell’Ultima Cena e, oggi, ai fedeli partecipanti al banchetto eucaristico. Non solo lo tocchiamo, ricevendolo sulle mani o in bocca, ma lo mangiamo, assimilando quel corpo al nostro.

    Il passato ci aveva consegnato gesti oggi forse persi per strada: la genuflessione o l’inchino al tabernacolo; il silenzio assoluto durante le parole della consacrazione; l’estrema attenzione nella ricezione del Corpo di Cristo (arriva gente che ciondola qua e là, saluta gli amici fino a non accorgersi di essere giunta davanti al ministro che distriiuisce la comunione) e nella risposta dell’Amen della fede; il clima di raccoglimento e preghiera o il canto gioioso nel tornare al proprio posto. Lo hanno toccato, ma l’hanno riconosciuto? «Non essere incredulo, ma credente!»: come credono?

  • Misericordia

    Misericordia

    Un politico italiano di area ambientalista avrebbe dichiarato che il suo movimento in Italia non trionfa per una questione culturale: «In Italia viviamo in una cultura del perdono, forse ha qualcosa a che fare con il cattolicesimo. Diamo sempre per scontato che tutto sarà perdonato».

    Molti hanno commentato nel merito citando ampiamente interventi papali, a cominciare dall’enciclica Laudato si’, e iniziative delle comunità per la difesa del creato.

    Ma pure legare “cultura del perdono” e cattolicesimo ha un che
    di suggestivo e intrigante. Di solito sono altri gli orientamenti culturali che paiono allergici a temi quali misericordia e perdono. E sempre fastidiose le domande in
    taluni processi: «Ma lei perdona (gli assassini, i mafiosi, i responsabili, i terroristi…)?», come se il perdono si potesse acquistare sulla bancarella del mercato rionale.

    Oggi, domenica dedicata alla misericordia, sarà bene tornare alle fonti cristiane: la misericordia non è ignorare il male o, peggio, venire a compromessi con esso. Ma è la capacità di affrontarlo in un altro modo – nel modo di Gesù – per conseguire quella liberazione che solo Dio sa e può donare dalla Croce.

    Scriveva san Giovanni Paolo II nel 2002, dopo l’attentato alle Torri Gemelle: «Non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono». C’è ancora molto cammino da fare per comprendere appieno il cristianesimo: un messaggio controcorrente, sempre assolutamente differente rispetto a ogni altro modo di pensare.

    don Gianni

  • L’incontro

    L’incontro

    «Io c’ero»: così si dice per vantarsi di avere vissuto da vicino un avvenimento famoso dove “incontrare” grandi personaggi o per darsi importanza nell’essere stati al posto giusto nel momento giusto.Domenica scorsa si sono rievocati i gesti dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme come lo descrivono i vangeli: per aver cantato Osanna e agitato rami di palme o di ulivo, molti avevano potuto dire di averlo visto, incontrato, magari incrociato il suo sguardo.
    Una fastidiosa sensazione fa immaginare che una parte di quegli stessi delle palme, fossero in piazza anche al giorno del processo e, abilmente manipolati, avessero gridato «Crocifiggilo!» contro quello stesso Gesù.

    Le folle del resto si accalcavano attorno a Gesù anche durante il suo ministero pubblico: è immensa la folla al Discorso della montagna; si contano a migliaia le persone saziate alla moltiplicazione dei pani; qualche volta bisogna proteggere Gesù perché rischia di essere travolto (anche se sa riconoscere chi spera una guarigione anche solo toccando il lembo del suo vestito).

    Il mattino di Pasqua invece vanno al sepolcro alla spicciolata: qualche donna, un gruppetto spaurito, un paio di discepoli. Trovano la tomba vuota e non sono del tutto in grado di decifrare l’accaduto, almeno finché Gesù non si mostrerà a loro risorto. Dapprima nei pressi del sepolcro stesso, poi nel cenacolo e in seguito in Galilea sulle rive del lago. Paolo lo incontrerà a suo modo sulla via di Damasco, mentre i suoi compagni di viaggio non potranno capire nulla.

    «Io c’ero». L’incontro con Gesù può avvenire anche nel cuore di una folla, di una massa di gente che lo acclama, chi per convinzione, chi per abitudine, chi per interesse. Ma quando si decide che Lui, con la sua morte e risurrezione, è davvero il centro della vita e della storia, occorre cercarlo per un incontro personale. Un incontro possibile intrecciando due esperienze: una comunità di testimoni – nella vita più che nelle parole – e un cuore aperto alle sue tracce.

    Solo così avviene il passaggio – come lo indicava il card. Martini – da un cristianesimo di abitudine e di tradizione a un cristianesimo di convinzione, di riflessione, di scelta, di decisione.

    Augurarci BUONA PASQUA è augurarci che l’incontro avvenga, non perché siamo bravi o perché la nostra comunità sia meritevole più di altre, ma perché Gesù, il Vivente, ci viene incontro.

    don Gianni

  • Nona stazione

    Nona stazione

    Quando ero in terza media, in occasione di una visita a una casa di riposo per anziani con la mia classe, fummo incaricati di “guidare” la Via Crucis commentando ciascuno una stazione. Mi aspettavo l’assegnazione di un tema importante – l’incontro con la Madre, il Cireneo, la morte di Gesù – e invece ebbi l’incarico della nona stazione: Gesù cade per la terza volta. Non ricordo quale fu la mia riflessione di allora. Ma da lì in poi, quando partecipo alla Via Crucis, do un valore
    particolare alla nona stazione. È probabile che Gesù sia caduto anche più di tre volte durante la
    salita al Calvario (il dislivello è scarso, ma erano le irregolarità del tracciato e soprattutto le conseguenze dei colpi patiti nella flagellazione a farlo vacillare), provocando l’ira dei soldati e la compassione di qualche spettatore.

    Ma la terza caduta porta in sé una sorta di compimento: tre è numero di perfezione, di sintesi. È come dire che cadere in basso è l’identità stessa di Gesù, come scrive Paolo nella lettera ai Filippesi: «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini; umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce».

    Umiliò, svuotò: la lingua originale sottolinea l’abbassamento, il farsi nulla agli occhi di tutti, quasi la vergogna di chi cade perché non sa più stare in piedi.

    In questo Gesù diventa simile agli uomini. Simile a uomini e donne sofferenti nei letti di casa o di ospedale, immobilizzati fisicamente per l’età o per incidenti, o sfigurati da malattie
    degenerative. Simile a chi fatica a far accettare le sue diverse abilità, con tutte le sfaccettature che esse comportano, o con l’aggiunta di quei mali oscuri o interiori quali le depressioni, gli autismi, le patologie rare, poco o niente curabili. Simile alle numerose vittime delle guerre, delle violenze, dei terrorismi e delle criminalità organizzate, ma anche di catastrofi o cataclismi, per alcuni dei quali sono evidenti le responsabilità dei cambiamenti climatici e della devastazione dell’ambiente. Simile – si può dirlo? – alle donne che prestano il loro utero per un figlio già venduto, il cui prezzo va in tasca a mediatori senza scrupoli. Simile a chi ho dimenticato in questa lista di “cadute e caduti”, e così simile a me peccatore, che Lui rialzerà con la tenerezza del perdono

    don Gianni

  • Simpatici

    Simpatici

    Dopo le 23.00, piazza della basilica: un pallone colpisce la porta centrale della chiesa; poco dopo un altro provetto calciatore fa ancora gol (grande com’è il portone, non è così difficile…), poi con maestria un altro ancora segna. «Se poteste evitare di giocare a pallone con la porta della basilica, sarebbe meglio. Magari si rovina, è un monumento e un patrimonio della comunità cittadina…» (predica un po’ buonista). Risposta di uno dei bomber improvvisati: «Ah, io non sono stato!»; un altro aggiunge: «Viva Gesù» (meno male!). Guardando bene: non sono adolescenti, ma gente che i vent’anni li ha superati da un pezzo. Simpatici? Irresponsabili.

    Festa del quartiere, la processione sta per iniziare: si parte da una sacra immagine, è lì da un paio di decenni a ricordare uno dei più importanti eventi cristiani. La gente si raduna in mezzo alla strada e si saluta con calore, ci si scambiano notizie recenti di familiari e amici, c’è un bel clima; arriva anche lo stendardo del Santo da portare nel cammino. Tra la folla avanza un uomo, molto serio, e chiede di parlare a colui che ha identificato come il celebrante per comunicargli, con un accento che sottolinea la estrema gravità della questione, che l’immagine si trova su suolo privato, che quella è proprietà privata, che bisogna provvedere alla rimozione, che… finché interviene qualcuno del vicinato e spiega che non è quello
    il momento giusto per la rimostranza e che comunque l’interlocutore non è il tizio a cui si è rivolto, ma
    il quartiere. Simpatico?

    Sgradevole.

    Citofono da trovare tra mille, finalmente trovo il nome, schiaccio il pulsante e la risposta è squillante: «Venga, terzo piano!». Sto incontrando nelle case i bambini e le bambine del primo anno di catechesi e
    le loro famiglie, e già alla risposta mi danno la sensazione di non avere a che fare con uno sconosciuto, ma di attendere la visita. Ci sediamo in cucina (il divano è occupato dai giocattoli e quindi inagibile) e cominciamo una conversazione normale sui presenti, sui loro nomi, sulla scuola frequentata, il lavoro dei genitori, gli sport praticati dai figli, qualche hobby, l’andamento della catechesi, ecc. Concludiamo con una preghiera per la famiglia e perché Gesù sia amico anche di coloro che sono poveri o tristi e porti loro serenità. Speriamo di rivederci presto in oratorio o in chiesa e ci salutiamo. Simpatici? Accoglienti.

  • Cecità e miopia

    Cecità e miopia

    Nel vangelo di Giovanni, dopo l’incontro con il “cieco nato”, Gesù si scontra con gli avversari: «Alcuni dei farisei gli dissero: “Siamo ciechi anche noi?”. Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane”». Il vangelo parla esplicitamente del percorso di fede del cieco risanato, capace di resistere a chi né lo riconosce come tale né dà credito al gesto compiuto da Gesù. Chi sono dunque i veri ciechi?

    Possiamo trovare cecità, o almeno miopie, anche oggi, in opinioni, scelte, comportamenti, che apparirebbero corretti, sensati, moderni, ma distorcono la realtà.

    Scatenare una guerra, sostenerla (come purtroppo fanno pure alcune autorità religiose), darle vigore con parole aggressive, è certamente sintomo di cecità. Potrebbe esserlo anche enfatizzare l’uso delle armi senza ricercare una sincera via di pace, dando ragione a chi sospetta che «le guerre sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi, per gli interessi di persone che si conoscono senza uccidersi».

    Il mondo occidentale, così innamorato della propria democrazia, al punto da volerla esportare con gli eserciti, è lo stesso che vuole innalzare l’aborto a diritto, restando cieco di fronte al reale diritto alla vita, quello del nascituro. In questo caso chi fa torto a chi? e chi è l’innocente aggredito?

    Ancora: chi sono davvero gli scafisti del Mediterraneo? La manovalanza o chi li organizza restando bene al riparo di complicità nebulose? E la polemica non fa dimenticare le “persone” migranti e i motivi tragici delle loro partenze (se guardiamo i paesi di provenienza…)?

    Pure qui vale un detto: il miope «guarda il dito, ma non vede la luna».

    Le catastrofi naturali sono anche conseguenza dei cambiamenti climatici, della siccità, della devastazione della natura (Amazzonia…): come è difficile per i capi della politica e dell’economia cercare un accordo per salvaguardare il creato, che è «non eredità dei padri, ma prestito delle generazioni future».

    Anche nella Chiesa, beninteso, troviamo cecità e miopie: voler conservare solo l’esistente di parrocchie e istituzioni, senza seguire la forza dello Spirito per tentare vie nuove di annuncio del Vangelo.

    O immaginare che organizzare eventi e occupare spazi sociali basti a elevare la qualità spirituale della comunità. Laviamoci tutti alla piscina di Siloe, l’Inviato!

    don Gianni

  • Il tunnel del divertimento

    Il tunnel del divertimento

    Nel tentare Gesù, il diavolo lo invita anche a buttarsi dal punto più alto del tempio: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». A parte l’uso distorto di un Salmo, il tentatore invita Gesù a un gesto tanto
    spettacolare quanto inutile. Non sappiamo se l’esperimento sarebbe riuscito: come credere a un menzognero e manipolatore? Ciò che sappiamo è che di fronte ai miracoli più clamorosi di Gesù – guarigioni, moltiplicazioni di pani, acqua trasformata in vino, risurrezioni…– c’era chi giungeva a credere con maggiore forza, chi insisteva nella scelta di non credere, chi se ne andava indifferente.

    E infatti i miracoli di Gesù, come quelli degli apostoli oppure legati alle apparizioni di Maria o alla proclamazione di Santi e Beati, non sono spettacoli per attrarre consenso né prove inconfutabili della fede, ma segni, affinché ciascuno rientri in se stesso e decida quale valore dare alla presenza di Gesù nella sua vita e come orientarla nella direzione dell’amore che Gesù ha insegnato e praticato.

    L’opera diabolica è di bloccare il percorso esclusivamente a ciò che è spettacolare, divertente, superficiale, appariscente, stupefacente (in tutti i sensi!). Stravolti dalle fatiche quotidiane del lavoro, da impegni familiari, dalle paure indotte da malattie e guerre, dalle incognite sul futuro, l’evasione potrebbe diventare il primo desiderio e criterio fondamentale di scelta. D’altra parte nel nostro mondo quasi tutti hanno le possibilità economiche per raggiungere questo risultato. Che alla fine potrebbe esprimersi solo in una gioia sguaiata e ridanciana, con il retrogusto amaro di essere rimasti alla superficie anche di ciò che avrebbe dovuto essere piacevole.

    Certo, molti affrontano responsabilmente i momenti dell’evasione: è giusto andare in vacanza, ascoltare musica, organizzare bei banchetti, giocare a carte, appassionarsi per lo sport ecc. In genere questi hanno già affrontato altrettanto responsabilmente il resto della settimana.

    Preoccupa invece veder idolatrare modelli da paese dei balocchi, dove nulla è serio e tutto viene buttato sul ridere o sul piacere effimero; dove l’apparenza conta più della verità: ci si butta dalla torre, ma ci si schianta al suolo in una vita dove nulla ha senso.

    (Il tunnel del divertimento cita una divertente sigla di Zelig di tanti anni fa).

  • Ospedale da Campo

    Ospedale da Campo

    «La storia è maestra di vita», anche se i potenti di oggi, con i loro egoismi nazionalistici e le nuove guerre di trincea, ne riportano ampiamente indietro l’orologio.

    In un recente incontro – 24 febbraio alla Pro Desio con lo storico Giorgio Del Zanna – si è parlato del secolo XX, spesso definito secolo breve perché idealmente compreso tra il 1914 (inizio della prima guerra mondiale) e il 1989 (caduta del muro di Berlino).

    A metà del secolo la Chiesa cattolica ha vissuto il Concilio Vaticano II (1962-1965), che intendeva favorire, come affermò papa Giovanni XXIII, un aggiornamento della Chiesa per riproporre con linguaggi nuovi la fede di sempre.

    Mi chiedo se non sia accaduto alla Chiesa quello che parve capitare a una parte della cultura e della politica: l’illusione ottimistica di poter imporre a tutti un modello di vita, sostanzialmente improntato allo schema occidentale, superando le disparità tra Est e Ovest e tra Nord e Sud del mondo. Anche il ’68, con la sua contestazione proprio a quel modello, proclamava per tutti la libertà, figlia però del pensiero europeo e nordamericano. Non fu certamente questa l’illusione
    del Concilio, animato dall’esperienza delle giovani chiese di Africa, America Latina e Asia. Forse però si pensò che, aggiornati linguaggio e approccio alla fede, l’umanità si sarebbe convertita in massa e con entusiasmo. Ed ecco allora in quel periodo moltiplicare le costruzioni di chiese, seminari, parrocchie, ecc. Dopo oltre sessant’anni dal Concilio – che ora per molti è un evento storico di cui non hanno vissuto né clima né idee – la Chiesa deve registrare una forte crisi di adesioni proprio in quel mondo occidentale con cui fino a poco fa aveva un legame preferenziale.

    L’avvento di papa Francesco, così poco “occidentale” e per questo sgradito a qualcuno, ha evidenziato per la Chiesa non un ruolo egemone nella società, bensì quello dell’ospedale da campo. Un’espressione che evita l’ossessione di contare di più nella società e avvicina a chi è ferito: «la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti!
    Si devono curare le sue ferite».

    È la voce del Papa. Più probabilmente è la voce dello Spirito che chiede di rivoluzionare il nostro modo di sentirci cristiani e membri della Chiesa.