All’interno del percorso di quaresima per gli adulti “L’altro è un bene?” venerdì15 marzo abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare don Alberto Frigerio, medico e docente di bioetica, in merito alla questione antropologica che può essereriassunta nella domanda “Cos’è l’uomo?”. Per chi non avesse avuto l’opportunitàdi partecipare, riportiamo qui un breve riassunto dell’intervento.
La domanda che (quasi) tutti si pongono
Una volta il filosofo greco Diogene di Sinope uscì di giorno con una lanterna accesa gridando: “Cerco l’uomo”.
Ma cosa cercava il filosofo? Egli andava alla ricerca dell’uomo naturale, della vera essenza umana, riassumendo la risposta alla domanda “Cos’è l’uomo?”. Questa domanda è ineludibile per ciascuno uomo e donna e acquisisce sempre più importanza con il progresso della scienza e della tecnologia, che stanno sempre più consentendo all’uomo di modificare in maniera radicale le esperienze umane come la nascita, la morte, il modo di amare… L’uomo con la tecnologia avanza la pretesa, teorica e pratica, di superare e migliorare la condizione umana o di riconfigurarla in base alla volontà dei singoli individui.
L’uomo, bisogno e desiderio
L’essere umano è l’unione di due elementi: corporeità, possiede un corpo misurabile, e libertà. La prima caratteristica accomuna l’uomo con tutti gli altri essere viventi, egli è dotato di istinti che guidano le azioni e processi biologici; la seconda è prerogativa esclusiva dell’uomo, egli è in grado di interrogarsi e superare la sola matrice istintiva e biologica. Esiste quindi una spinta naturale dell’uomo protesa a ricercare il senso che gli permetta di apprezzare l’esistenza umana stessa.
Entra quindi in gioco la dimensione del desiderio, una dimensione dell’uomo che trascende la limitatezza e la finitudine. Accanto ai bisogni fisici, come ad esempio mangiare e dormire, che hanno una dimensione finita, l’uomo sperimenta l’inquietudine verso qualcosa di infinito.
La rivelazione cristiana
Sorge quindi la domanda, cosa desidera l’uomo di infinito? La risposta cristiana a questa domanda è il desiderio naturale dell’uomo di vedere Dio. L’uomo cristiano ha la possibilità di incontrare l’assoluto nella relazione che ha con Dio.
La grande opzione che ci pone di fronte la Bibbia non è tra credere o non credere, ma piuttosto a chi voglio rivolgere lo sguardo: cerco Dio, qualcosa di infinito, o altri idoli, che però sono finiti? Denaro, piacere e potere sono elementi presenti nella vita dell’uomo, l’incontro con il Signore non li cancella ma aiuta a viverli in maniera positiva e non li rende idoli ai quali protendere il proprio desiderio.
La difficoltà del nostro tempo
Nella società odierna il desiderio di infinito fatica ad emergere perché viene mascherato da due elementi: il consumismo e la tecnologia. In una società consumistica si prova a colmare il desiderio di infinito con un grande numero di oggetti finiti, ma questa soluzione di certo non appaga definitivamente l’uomo.
La società scientifica e tecnologica pone in risalto gli aspetti della misurabilità e della fattibilità nascondendo altri come moralità, metafisica… si riducono così le dimensioni dell’intelletto umano. Diventa quindi importante educare l’uomo a “camminare” all’interno di tutte le dimensioni intellegibili e non solo a quelle messe in risalto dalla società moderna.
4 novembre 2023 C’è un fortissimo legame tra il senso dell’umiltà e la nostra diocesi ambrosiana: “Humilitas” era il motto del Cardinale ambrosiano Carlo Borromeo, che la Chiesa celebra il 4 novembre e che dell’umiltà ha fatto il suo motto e lo stile di vita del suo operato come vescovo e guida spirituale della diocesi milanese.
“Le anime si conquistano in ginocchio”, cosi egli ripeteva ai suoi pastori incitandoli a credere nella forza della preghiera e del digiuno per trasformare la loro vita in cammino di santità… “San Carlo, desiderava Pastori che fossero servi di Dio e padri per la gente, soprattutto per i poveri” (Papa Francesco).
Chi si trova a passare da Arona sulle rive del lago Maggiore, vede subito la statua che rappresenta il “vescovo ragazzino” (così venne chiamato San Carlo Borromeo, colui che diverrà però un gigante della fede).
La particolarità del monumento sta nella la possibilità di visitarne l’interno, fino ad arrivare alla sommità, e da qui guardare il mondo sottostante attraverso due feritoie poste proprio sugli occhi. Così si può cogliere l’insegnamento che questo Santo ha lasciato: guardare il mondo attraverso gli occhi della carità e dell’umiltà, che fu il suo motto episcopale: “Humilitas”.
Essendo il secondogenito della nobile famiglia Borromeo, già a 12 anni riceve il titolo onorifico di “Commendatario” di un’abbazia e la relativa rendita, ma si distingue subito nel donare tutti i suoi averi ai poveri. A 21 anni diventa dottore in diritto civile e canonico all’Università di Pavia. Dovrebbe secondo la famiglia e lo zio Papa Pio IV, sposare la moglie del fratello maggiore morto improvvisamente, per gestire i tanti interessi della famiglia ma lui si oppone, vuole diventare prete! A 25 anni, Pio IV lo ordina prete e subito dopo vescovo di Milano ma senza obbligo di governare la diocesi. Partecipa al concilio di Trento e alla stesura della “Controriforma” e si convince così che il suo vero posto deve essere a Milano. Lo attendono 750 parrocchie, spesso abbandonate, centinaia di conventi (che durante il suo ministero a Milano visiterà pastoralmente per tre volte) 5000 tra preti e frati e 3400 suore. Un clero spesso ignorante e anche scostumato.
Il suo primo provvedimento: da vescovo rinuncia a 12 abbazie, feudi, benefici e pensioni destinando tutto alla pubblica utilità, ospedali, collegi, scuole, rifugi e mense sempre aperte per i poveri. Tra il 1576 e il 1577, durante il suo episcopato, nel territorio di Milano dilaga una terribile pestilenza e lui non si risparmia: visita, conforta e spende tutti i suoi beni per aiutare gli ammalati, tanto che il periodo storico verrà ricordato come la “peste di San Carlo”.
Quando la sacra Sindone verrà portata a Torino dalla Francia, dai duchi di Savoia da lui sollecitati, vi si reca in pellegrinaggio a piedi, camminando per quattro giorni, in digiuno e preghiera.
Ma, il fisico provato dalle tante fatiche, comincia a cedere, ed il 3 novembre 1584, muore a Milano a 46 anni e 21 giorni. Sul letto di morte, a chi gli diceva che avrebbe dovuto risparmiarsi, risponde sereno: «la candela per dare luce deve consumarsi».
“L’esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le loro stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l’unica vera causa di tristezza e di infelicità per l’uomo è vivere lontano da Lui”. (Benedetto XVI) Fabrizio Zo
Umiltà
Prendendo spunto dalla parola Umiltà proponiamo alcune riflessioni tratte dall’omelia di un presbitero e teologo residente a Desio
Nel calendario liturgico della chiesa cattolica, a luglio, ricorre la festività di San Benedetto, patrono d’Europa e fondatore del monachesimo. San Benedetto da Norcia, fratello di Santa Scolastica, nacque verso il 480 d.C., da un’agiata famiglia romana. La sua nota “Regula” è la base a cui, dal VI secolo, si ispirano tutti i monasteri del mondo occidentale.
È convinzione comune che il filo conduttore di questa regola debba essere il senso della preghiera e l’obbedienza (a Dio, ai dogmi della fede, all’abate, ai confratelli). In realtà la chiave di lettura di tutta la Regula è l’umiltà, intesa nel senso letterale del termine: umiltà viene da humus cioè terra. Umile è colui che costantemente ha “i piedi per terra”, conoscendo sia i propri limiti, sia i propri pregi, sapendo valorizzare le proprie risorse per ciò che valgono, soprattutto al servizio della comunità. La sintesi estrema è nel motto: “ora et labora”.
Non è un discorso banale: oggi come oggi moltissime persone (oltre il 90%) vivono fuori dall’umiltà. Alcuni vivono paurosamente “sotto le righe”, senza alcuna fiducia nelle proprie capacità, convinti di non essere capaci, persuasi che gli altri fanno meglio, che hanno tutte le fortune, certi che la sorte non sorride mai a loro, ecc… Viceversa, qualcun altro vive clamorosamente al di “sopra delle righe”, nella convinzione di essere molto più di ciò che in realtà sia, autoconvincendosi di essere più importante, impegnato a far pesare una sua (presunta) superiorità, dando per scontato che a lui gli altri “devono” a prescindere… In un modo o nell’altro costoro sono persone poco felici, che vivono in un loro mondo (parallelo), percepito come vero o presunto tale, in realtà distorto e fuori della realtà, e queste convinzioni li portano in un perenne stato di frustrazione e sofferenza.
Riscoprire il senso dell’umiltà, apprezzare le poche o tante cose che si è capaci di fare, sapersi allineare alla concretezza della vita quotidiana, imparare a confrontarsi senza necessariamente competere e prevaricare ecc. Queste sono criteri che si potrebbero identificare come “regole di vita”, basi per una serenità che troppo spesso oggi manca. Apprezzare il senso dell’umiltà significa anche la scoperta dell’altro e dei suoi valori, la reciprocità e la condivisione come fece San Carlo Borromeo di cui, qui a lato, presentiamo una breve biografia.
È attraverso il Sangue di Cristo che i santi e i martiri hanno testimoniato la loro fede e sono arrivati in cielo…
Secondo la tradizione, il soldato Longino che trafisse con la Lancia il costato di Gesù crocifisso, avrebbe raccolto in un vaso il sangue che sgorgò dalla ferita e cadde a terra. Longino, poi convertitosi, fuggì in Italia. Egli si sarebbe fermato a Mantova nel 37 d.C., sotterrando la preziosissima reliquia in una piccola cassetta di piombo, con sopra la scritta Jesu Christi Sanguis. In questo luogo, fu edificata la basilica di Sant’Andrea. Nell’anno 804, fu riportata alla luce la cassettina accanto alla sua tomba e la reliquia fu ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa Cattolica e approvata per il culto da papa Leone III.
La festa del Preziosissimo Sangue di nostro Signore Gesù Cristo venne istituita a Roma da papa Pio IX, il 10 agosto 1849, che la estese alla Chiesa universale. Paolo VI, con la riforma del Calendario liturgico, la unì alla festa del “Corpus Domini” che da allora si celebra in tutta la Chiesa come “Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo”.
“La devozione al sangue di Cristo – scriveva San Gaspare del Bufalo – apre le porte della divina misericordia; se i popoli ritornano nelle braccia della misericordia e si mondano nel sangue di Gesù Cristo, tutto il rimanente facilmente si accomoda”…. Il sangue di Cristo é “l’attestato d’amore di un Dio fatto uomo”. Ogni volta che partecipiamo alla Messa e ci cibiamo del corpo e sangue di Cristo, assumiamo in noi il segno vivo ed efficace del suo Amore totale per noi, che ci lava, ci nutre dello stesso Amore, e ci trasforma a sua immagine.
Il Sangue, è descritto nella Bibbia come l’elemento della vita. “La vita di una creatura risiede nel sangue” (Levitico 17,11). È questo che noi cerchiamo e possiamo trovare attraverso questa devozione. La vita in Dio.
La vocazione è qualcosa che cresce ogni giorno, si evolve e matura. Così Fabrizio, diacono nella nostra Comunità, ci racconta il suo cammino di risposta al progetto di Dio
Spesso si pensa che vocazione è un fatto istantaneo, che riguarda un dato momento della vita di una persona che si sente chiamata a fare qualcosa di grande. Vocazione sembra quasi un qualcosa di preliminare a un cambiamento, a uno stravolgimento della vita. Certo, ci sono stati episodi di grandi conversioni accompagnati da una chiamata. Pensiamo a san Paolo, che insieme alla chiamata di Gesù sente questo stravolgimento nella sua vita e da persecutore della Chiesa ne diventa uno dei più grandi apostoli e fondatori. Pensiamo a sant’Agostino e alla chiamata che sentiva dentro il proprio cuore, che all’inizio non sapeva ben individuare ma che poi è esplosa in tutta la sua bellezza.
La vocazione, quella ordinaria, quella che arriva dalla vita di tutti i giorni è qualcosa di più lento, progressivo, che interpella, che mette in crisi, che non si capisce bene cosa sia, e che solo dopo molto tempo si realizza.
Ci ho messo oltre 40 anni per capire a che cosa il Signore mi stesse chiamando. Certo, la domanda più semplice che un uomo può farsi è quella di dire “forse il Signore mi sta chiamando alla vita sacerdotale, o religiosa…”. Ed è stata la stessa domanda che mi sono posto io per tanto tempo… Ma solo aprendo il cuore, solo lasciandosi trasportare dagli interrogativi, solo lasciandosi accompagnare da chi prende a cuore il tuo cammino, si può arrivare ad individuare bene quale sia la vocazione e come poter rispondere. Dapprima ho pensato alla vita sacerdotale e dopo aver accettato la possibilità che questa non fosse la mia vocazione, ho potuto scoprire e riscoprire ogni giorno la bellezza del servizio alla Chiesa come diacono permanente. Un cammino che è iniziato nel 2013 e che oggi, a 2 anni e mezzo dalla mia ordinazione, sento che sto man mano maturando e costruendo.
La vocazione infatti non è un episodio straordinario e isolato della propria vita. La vocazione è qualcosa che nasce nel cuore, che cresce, che si fa sentire non solo quando si muovono i primi passi, ma ogni giorno, continuamente, si evolve, matura, cresce.
A chi mi dice “Quando hai sentito questa vocazione?” io semplicemente rispondo che la mia vocazione non è mai cessata. Quella voce che dentro il mio cuore chiama e interpella non si è mai fermata, perché la vocazione è qualcosa che matura con il tempo, che forma una esistenza, che cerca di rispondere a un progetto più grande di noi. La vocazione non è qualcosa che arriva in via preliminare e poi si fa da parte quando si risponde, ma è un continuo chiamare e richiamare al senso della vita, al progetto di Dio, alla bellezza di sentirsi ogni giorno chiamati.
E infine a chi mi chiede: “e ora cosa farai”? Io rispondo semplicemente: cerco di continuare a rispondere a quella chiamata ogni giorno, perché dentro quella vocazione più grande ci sono tante altre piccole chiamate che arrivano ogni giorno, che mettono alla prova, e che permettono alla vocazione di crescere e intensificarsi nel progetto che Dio ha su di me. Guai se non riuscissi a rispondere anche un solo giorno a questa chiamata!
La Quaresima viene definita come il tempo “forte”, o come un periodo in cui la liturgia o le tradizioni ci propongono penitenze o fioretti di vario genere . O ancora un periodo in cui ricorrono e si ripetono diversi termini consueti quali rinuncia, sacrificio, deserto, passione, ecc… Noi ne abbiamo scelti 3, preghiera, silenzio e conversione e in queste settimane ne proponiamo una riflessione e una attualizzazione nella concreta vita quotidiana di ogni cristiano.
Cosa ci dicono oggi queste parole? Sono portatrici di valori e stili di vita che hanno ancora un significato ai nostri giorni? O sono solo un retaggio del passato e del superficiale “si è sempre fatto così”?
Siamo entrati nel tempo della Quaresima, periodo che ricorda i quaranta giorni di Gesù nel deserto, dove venne “condotto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo” (Mt 4, 1).
È in questo tempo che Gesù si prepara a vivere la sua missione nel mondo, è qui nella solitudine, nel silenzio che lo circonda, fuori dal rumore del mondo, che Gesù vince la SUA battaglia con il male. I Vangeli narrandoci la vita del figlio unigenito, parlano anche alla nostra vita.
Anche noi possiamo vivere questi quaranta giorni, il nostro tempo di deserto, tornando a scegliere di vivere da: “Figli del Padre vostro celeste…” (Mt 5,45). Solo da questa consapevolezza (sentirsi figli), può nascere un dialogo, un affidamento fiducioso, la speranza che la nostra vita non è un insieme di cellule che vivono fino ad esaurirsi e poi più nulla! Siamo fatti per l’eternità… Eppure tutto questo troppo spesso facciamo fatica a crederlo o ricordarlo… è più facile che prevalga l’immagine di Dio come qualcuno che ci giudica, che ci chiede di fare cose che non comprendiamo, troppo lontano da noi, dalle nostre vite reali, piene di cose da fare e di problemi che non possono coinvolgere un Dio così lontano!
I discepoli che seguivano Gesù, il “Maestro”, rimasero stupiti vedendolo pregare in questo modo: “Dopo aver congedato la folla, salì sul monte in disparte per pregare. E, fattosi sera, era là tutto solo” (MT14,23). Capivano però che da quella preghiera, da quel continuo rapporto intimo con il Padre, Egli traeva la propria forza. Ogni volta che doveva prendere una decisione importante, prima di una scelta, quando sentiva il bisogno di ritrovare la forza, di riposarsi un poco…la preghiera era la costante che gli permetteva di proseguire il cammino, il suo aiuto, il suo rimedio, il suo sollievo. Così gli domandarono: “…Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite: Padre,…” (Lc 11, 1-2). Comincia così l’unica preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, e che ancora oggi noi ripetiamo dopo 2000 anni. Nel vangelo di Luca, questa prima invocazione nasce dal cuore stesso di Gesù che sceso dalla montagna condivide con i suoi amici quello che ha vissuto nella sua preghiera. La prima parola che insegna Gesù è come chiamare DIO: “Padre (Abbà)” (il modo con cui i figli chiamano il Papà in famiglia, nell’intimità).
Questo è il nome di Dio! Questo ha insegnato il Figlio da sempre unigenito ai suoi discepoli e a noi: sentirci figli come lo è Lui, amati da Colui che ci conosce da sempre e può vedere e comprendere cosa abita nel profondo del nostro cuore. Se riuscissimo a vivere così il nostro rapporto con Dio potremo trasformare la nostra preghiera in un vero dialogo d’Amore con Lui che ci chiede solamente di lasciarci amare.
Fabrizio Zo
LA PREGHIERA È IL RESPIRO DELL’ANIMA, SENZA IL RESPIRO CESSO DI VIVERE. Che significato può avere per te questo modo di vedere il senso della preghiera? È attuabile nella nostra vita quotidiana?
PREGARE È METTERSI NELLE MANI DI DIO COSI’ COME SIAMO, con i nostri dubbi, i nostri bisogni, le nostre gioie e i nostri momenti di sconforto e delusione. E’ vero questo aspetto per te?
SE MI AFFIDO A DIO NELLA PREGHIERA POSSO SENTIRE IL SUO CONFORTO, LA SUA PRESENZA. Spesso invece si sente dire ho pregato ma Dio non mi risponde: il grande mistero del silenzio di Dio.
Lo scorso 2 febbraio, festa della presentazione di Gesù al Tempio, è stata anche la giornata dedicata da Papa Giovanni Paolo II alla “Vita Consacrata”. Memoria di chi come Gesù si è interamente offerto a Dio, nelle diverse forme a cui ogni credente sente di essere chiamato. Per questo abbiamo chiesto alle Suore Adoratrici del SS. Sacramento di Seregno e alla nostra ausiliaria diocesana Valeriana di aiutarci a capire in quale modo la loro forma di donazione a Dio possa collegarsi al servizio della Chiesa tutta.
Questa la testimonianza della Madre superiora, Suor Daniela
Adorare Dio e donarlo al mondo
Il monastero contemplativo, quale è quello delle Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento a Seregno, rappresenta il volto orante della Chiesa, il cuore, in cui sempre lo Spirito geme e supplica perle necessità dell’intera comunità e dove s’innalza senza sosta il grazie per la Vita che il Signore elargisce ogni giorno.
Un dono anche per la Chiesa locale.
Una presenza discreta, che offre una testimonianza silenziosa e che costituisce un richiamo alla preghiera e alla verità dell’esistenza di Dio. Una comunità contemplativa, dedita alla preghiera, all’adorazione eucaristica perpetua, che vive in un monastero ubicato là dove la gente vive, tra le case, i negozi e i rumori della strada e dei passanti. Per scelta, per adempiere ad una missione: quella non solo di adorare giorno e notte, ma di offrire ad ogni fedele, nel turbinio degli impegni quotidiani, la possibilità di godere di una pausa contemplativa nella quale attingere ogni grazia dalla Presenza Reale del Signore.
L’Adorazione è il momento più contemplativo della giornata di ogni monaca e diventa il momento più missionario della sua vita: custodire Dio non per farne una proprietà gelosa, ma per donarlo al mondo. Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia scriveva: «Lo sguardo della Chiesa è continuamente rivolto al suo Signore, presente nel Sacramento dell’Altare, nel quale essa scopre la piena manifestazione del suo immenso amore…». E qui nasce la vita della comunità delle Adoratrici Perpetue: “Il Signore ci ha chiamato ad essere un costante sguardo di adorazione, con la Chiesa, e per la Chiesa. Tutta la nostra vita sta in questo sguardo. Viviamo la nostra giornata nella preghiera, rivolgendo lo sguardo al Signore realmente presente nell’Eucaristia, sia nel momento in cui ci portiamo in Chiesa per le celebrazioni liturgiche, sia nel tempo dedicato al lavoro o ad altre occupazioni. L’adorazione è un atteggiamento del cuore, è lo sguardo della creatura verso il Creatore, uno sguardo d’amore. Proprio per questo ogni momento nella nostra vita deve diventare adorazione: dalla più piccola e umile azione, ai momenti più intensi di preghiera, meditazione, ascolto della Parola di Dio. La nostra presenza continua ai piedi dell’altare, come adoratrici e come comunità monastica adorante, è annuncio della presenza reale di Gesù Risorto nelle nostre Chiese, e in ogni tabernacolo; nello stesso tempo garantisce che nella Chiesa c’è una Famiglia Religiosa che ha come unico compito quello di adorare, lodare, ringraziare il Signore e portare in adorazione a Gesù le ansie, le preoccupazioni, le sofferenze, le gioie, le attese di tutti, consegnando a Lui l’intera umanità. In una misteriosa fraterna comunione tutti possono unirsi alla nostra adorazione quotidiana e sentirsi presenti ai piedi dell’Altare in ogni momento in ogni situazione, da qualsiasi luogo”
La nostra chiesa è aperta dalle 6.20 alle 18.45
La S. Messa è alle 7.00 nei giorni feriali e alle 8.30 alla domenica e nei giorni festivi
Alle 17.40 Rosario e Vespri
Il sabato sera alle 21 la chiesa riapre e rimane aperta per tutta la notte per permettere l’adorazione notturna anche ai fedeli che lo desiderano.
Vivere oggi la propria vocazione
Valeriana Galimberti, ausiliaria diocesana che opera nella nostra comunità da 7 anni, rilegge il senso della sua vocazione alla ricerca della felicità della vita
Tanti cercano di negare, di camuffare, il proprio stato d’animo di insoddisfazione, ma la verità è una sola: senza Dio nella propria vita, non c’è pace!
Ci può essere rassegnazione, ma non la si può scambiare, per la pace interiore, come frutto di un rapporto personale con il Dio vivente e vero. Essere cristiani non è un modo diverso di pensare rispetto alla massa, ma cristiano è colui che ha realizzato l’opera di salvezza compiuta da Gesù sulla croce. Nella croce abbiamo la massima dimostrazione dell’amore di Dio rivolto all’umanità, a me e a te. Cercare la propria vocazione e realizzarla vuol dire vivere di questo amore nella convinzione che non c’è amore più grande.
Il Signore ha detto: «Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il vostro cuore; Io mi lascerò trovare da voi» . Ecco il segreto per trovare Dio, cercarlo con tutto il cuore, cioè non con dubbio, con superficialità, con le nostre convinzioni, pretendendo che ci risponda come noi vorremmo. Dio si fa trovare quando una persona è sincera e non arrogante: Egli è il Signore della Gloria, impariamo l’umiltà davanti a Lui.
S. Agostino diceva: Cercando te, mio Dio, io cerco la felicità della vita. Cercare Dio è andare in profondità nella propria vita, domandarsi il senso di quanto accade; scorgervi un significato che dà gusto e sostanza al vivere.
«Non uscire fuori di te, rientra in te stesso; la verità abita nell’uomo interiore». Sembra che Agostino si rivolga proprio all’uomo di oggi, alienato da sè stesso, dal suo orgoglio, frastornato da tante cose che lo circondano e lo sollecitano, illudendolo di riempire con esse il vuoto interiore, che è il vuoto di Dio. Solo quando ritroveremo noi stessi, insegna S. Agostino, quando riacquisteremo la nostra umanità perduta liberandola dalla schiavitù delle cose, potremo ritrovare anche Dio e quindi la felicità.
L’esperienza di fede di Sant’Agostino suggerisce ad ogni uomo la ricerca di Dio come continua tensione del cuore, vissuta nella preghiera, nell’ascolto della Parola, nella condivisione della vita.
Si può tradurre in cinque parole:
Torna al cuore: è nel cuore che l’uo-mo ritrova veramente sè stesso. L’uomo vale per quello che è nell’interiorità del suo cuore e nella qualità del suo amore: “ogni uomo è ciò che ama”.
Rivestitevi del Signore Gesù Cristo: incontrare Cristo e camminare con lui, comporta il lasciarsi fare nuovi dentro, apprendere i sentimenti di misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine, pazienza che sono propri dell’umile Gesù.
Diventare un “noi”: imparare a pensare al plurale; avere a cuore “gli interessi di Cristo”, che sono la salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo e di ogni uomo. Un bell’orizzonte di sfida e diconversione per la nostra mentalità individualistica e autoreferenziale.
Canta e cammina: in un mondo segnato da eventi epocali oggi come allora, S. Agostino invita a non disperare, ma a guardare avanti con l’animo aperto alla speranza, perché è Dio che con la sua provvidenza guida la storia.
La nostra vita è una ginnastica del desiderio: desiderio di Dio, che ci spinge a svuotare il nostro cuore dai desideri cattivi per riempirlo del desiderio del bene, e del sommo bene racchiuso in due sillabe: Dio. Questa è la convinzione che mi porta a vivere e a operare da tanti anni nella Vigna del Signore. Non cambierei la mia vocazione con nessun’altra realtà.
Edoardo Mauri, originario di San Pio X, è un seminarista al quarto anno della teologia nella diocesi di Milano, ha vissuto un’esperienza di un anno nel carcere di San Vittore a Milano. Qui la racconta per noi, per la nostra Comunità Pastorale.
Cari amici desiani, sono felice di potervi scrivere per raccontare un po’ la mia esperienza di quest’anno. Come seminarista del 4° anno infatti ho vissuto l’anno pastorale nel carcere di San Vittore a Milano. Un anno intenso, ricco in cui ho potuto imparare molto.
“Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Con questo versetto semplice e conosciutissimo del Vangelo ho cercato di vivere i diversi incontri coi detenuti.
Tanti i pensieri, le domande, i sani timori prima di iniziare questa avventura desiderata e attesa. Ripenso al primo giorno, alle primissime ore in cui ho varcato i cancelli del carcere e ho due immagini che mi accompagnano e mai mi scorderò.
La prima, è la netta separazione dal mondo esterno: non si percepisce più la città caotica, il traffico, i rumori che siamo tutti abituati a sentire in un centro abitato.
Questa sensazione di separazione assumeva sempre più peso passando i tanti cancelli per arrivare nella zona in cui ci sono i detenuti accompagnato dal rumore delle chiavi, dei cancelli che si aprono dietro le tue spalle e vengono sbattuti violentemente.
La seconda immagine che mi porto sono gli odori che mai ho sentito altrove. Un odore che solo il carcere può offrire: un mix tra sigaretta, ambiente chiuso, umidità e…umanità data dalla presenza di tante persone. Immagini molto concrete per me, un giovane che entra per la prima volta in un ambiente del genere, ma che aiutano a cogliere l’unicità del posto.
L’esperienza del carcere è l’esperienza dell’ultimo che viene privato di ciò che si dà più per scontato nella nostra quotidianità ovvero il dono della libertà. Questa assenza di libertà si tramuta in tante distrazioni, pensieri, occasione di riflessione e rilettura di sé o dei famigliari che sono all’esterno e spesso raccogliamo tutto questo cercando di dare spunti per vivere il periodo della detenzione con un altro sguardo. Il mio servizio spazia molto dai colloqui personali coi detenuti, ai piccoli gruppi di preghiera in cui si abbozza una lectio su brani scelti ad hoc, oppure percorsi di catechismo, accompagnando coloro che desiderano ricevere i sacramenti.
Dopo ormai 9 mesi di incontri, di colloqui personali in carcere, arrivo sempre più alla consapevolezza che la maggior parte delle persone che sono dentro lì, non hanno mai sperimentato nella loro vita cosa sia l’amore puro, semplice, il sentirsi veramente voluti bene da qualcun altro. È quindi interessante vedere quanto le relazioni dentro siano intense, quanto sia importante avere degli amici su cui contare, di cui fidarsi. Ho in mente la situazione di due ragazzi, appena maggiorenni, che sono stati arrestati insieme.
Tante, insomma, le emozioni e i sentimenti che provo in questi mesi, ma soprattutto sempre più la convinzione che la frase di Vangelo con cui ho iniziato a scrivervi, diventa per me ancora più vera quando leggo la risposta di Gesù: “Lo avete fatto a me”. Ho l’occasione preziosa ogni volta di incontrare il volto di Gesù, nel volto dei detenuti, di visitare il Signore e lasciarmi da Lui toccare! Mi è data questa responsabilità unica, sta a me e a noi non sprecarla. Il Signore viene, non ci resta che riconoscerlo.
Tommaso, chierico cerimoniere, ci racconta la sua ricerca della fede attaverso l’esperienza del servizio all’altare
Tutto comincia dentro un alone di mistero: ci si ritrova in uno spazio che non è riservato al resto dei fedeli, in un ruolo diverso dai fedeli che sono in Chiesa. Tutti allo stesso modo guardano verso l’altare e il sacerdote. Tutti, tranne i chierichetti. Loro stanno lì, di lato, sempre pronti a muoversi, a entrare e uscire dalla sacrestia.
Quello che ho capito in tanti anni di servizio è che questa maggiore vicinanza all’altare e ai sacerdoti rende questa esperienza densa di significato. È una sorta di privilegio, di opportunità in più che ti viene consegnata per vivere meglio la Messa. Il chierichetto fin dal momento in cui indossa la veste capisce che non è lì per caso, che non sta semplicemente ricordando qualcosa accaduto tanti anni fa, ma è in presenza di un fatto, di un grande evento che avviene ancora oggi, lì, nella Messa.
I compiti che si svolgono durante la celebrazione, come l’utilizzo dei cantari o dell’incenso, sono importanti per arricchire il momento, ma innanzitutto sono importanti proprio per il chierichetto. Nello svolgere quel compito chi ne esce davvero arricchito è quel semplice ragazzino che sta reggendo una candela o un campanello. Attraverso un semplice gesto, attraverso ciò che può sembrare quasi una formalità, ho sempre riconosciuto qualcosa di più grande. È davvero una grazia avere la possibilità di vivere tutto questo, perché attraverso un singolo gesto durante la Messa si può riscoprire veramente il senso di quello che stiamo facendo. E tutto questo, in fondo, mi conforta perché mi fa capire di come la fede in Dio non sia qualcosa di mistico, lontano e sconosciuto, ma si possa ritrovare in gesti estremamente concreti come quelli che compiono i chierichetti.
Diventando cerimoniere, ho poi ulteriormente compreso quanto questo ruolo mi metta davvero nelle mani qualcosa in più per vivere la mia fede e soprattutto che quella diversità di approccio che deve avere il chierichetto durante la messa è solo in apparenza un distacco dagli altri: è invece un avvicinarsi di più a Dio che dà la forza per essere davvero vicini e presenti all’altro che incontriamo nella nostra vita. Vedere nella nostra parrocchia tanti bambini che decidono di iniziare questo percorso è una cosa bellissima.
Il mio compito è insegnare loro, durante il breve corso a cui partecipano, le diverse mansioni che devono svolgere, ma la verità è che sono loro che insegnano a me, perché mi fanno interrogare nuovamente sul perché fare il chierichetto e sul perché credere fino in fondo in Dio: è grazie a loro, a questi piccoli chierichetti e alle tante persone intorno a me che riesco a mettermi sempre di nuovo sulla via della ricerca e della fede. I gesti compiuti durante il servizio e tutti gli incontri che ho fatto sono così densi, così belli che non possono non avere un Senso.
Per questo è veramente meraviglioso essere chierichetto: è uno dei modi che ci vengono offerti per stare vicino a Gesù e per superare tanti dubbi di fede che ci possono accompagnare.
E per questo posso solo ricordare con commozione quella sera di undici anni fa in cui, quasi per caso pensavo io, venni invitato a mangiare una pizza con i chierichetti della parrocchia di SS. Pietro e Paolo. Ma non fu per caso. E ancora oggi ringrazio per quel giorno e per l’avventura che lì è cominciata per me.
Questa la missione delle due realtà religiose presenti da molti anni nel nostra città: le Ancelle della Carità e i Missionari Saveriani. Suor Lucia e Padre Emmanuel ci raccontano la storia della loro presenza tra noi partecipando attivamente alla vita della nostra Comunità.
Ancelle della Carità
La Congregazione delle suore Ancelle della Carità nasce a Brescia nel 1840, fondata da Paola Di Rosa che, divenuta religiosa con il primo gruppo di compagne, prende il nome di suor Maria Crocifissa fino all’anno della sua morte nel 1855 e risponde con le sue Figlie all’appello di Cristo ovunque l’uomo le chiami: ospedali, assistenza parrocchiale e catechistica, assistenza educativa, assistenza morale.
L’Istituto Paola Di Rosa, in Desio è al servizio dell’educazione dei giovani dal 1896. La scuola si configura come comunità educante in cui genitori, docenti, educatori e suore accompagnano l’alunno dall’inizio del percorso scolastico fino al suo inserimento nel mondo del lavoro. Via S. Pietro 16 – 20832 Desio (MB) +39-0362-621649 info@paoladirosa.it – www.paoladirosa.it
La presenza delle Ancelle della Carità a Desio è una storia lunga di ben 125 anni. Dalla cronistoria del Collegio “Paola di Rosa” apprendiamo che le Ancelle della Carità furono chiamate all’Ospedale di Desio nel 1836. Poco dopo, accanto a quella assistenziale ebbe inizio anche l’opera educativa. La signora Luigia Brughera diede alle suore ospedaliere la gestione del Collegio femminile sito in Piazza Castello. Fedeli ad un carisma ricevuto per essere a sua volta donato, la nostra presenza si concretizza in una complessa opera educativa.
Il Collegio “Paola di Rosa” è sede di una scuola Cattolica in cui vengono promossi i valori della cultura, della solidarietà, della legalità, della giustizia e della pace che sono alla base di ogni convivenza e trovano la loro origine nella dignità di figli di Dio propria di ogni uomo.
L’intera comunità delle Ancelle dedica intelligenza e cuore nell’ambito educativo con stile di accoglienza e di servizio, tessendo così buoni rapporti interpersonali in una concreta collaborazione con tutta la cittadinanza desiana.
Inserite nel contesto sociale a pieno titolo, facciamo nostre le gioie e i dolori, i problemi delle persone e viviamo in solidarietà con tutti un impegno quotidiano per compenetrare il tessuto sociale di principi cristiani e di valori civili.
Nello Spirito del nostro carisma di carità siamo disponibili ad un cammino di condivisione con i sacerdoti e la Comunità parrocchiale in cui siamo inserite e a cui apparteniamo. Curiamo l’iniziazione cristiana, la Catechesi e l’accompagnamento nel cammino di crescita dei ragazzi e degli adolescenti in un concreto dialogo con le famiglie, i catechisti e gli animatori. Condividiamo con i giovani un percorso di riflessione e di ricerca delle verità. Partecipiamo ai vari “Consigli pastorali parrocchiali” e come ministri straordinari dell’Eucarestia. Viviamo accanto alle persone anziane, ammalate e ai loro familiari ricordando sempre che “l’Ancella è venduta alla Carità” e che è a disposizione completa di questa virtù.
Se ci chiedete quali progetti abbiamo qui a Desio, vi rispondiamo che il futuro è nelle mani di Dio, il presente è un dono, un talento da far fruttare al meglio. Il passato è riconoscenza alle tante sorelle che in Desio hanno dato il meglio di sé donando gioventù, forze e vita. Non vorremmo che si interrompesse questa catena di amore, custodi di una tradizione e di una consegna ricevuta ricordando che “a nessuna opera di carità l’Ancella si reputerà straniera”, essendo consacrata a tutti con il solo nome Ancelle della Carità.
Vorremmo che il Signore facesse prosperare per la Sua infinita bontà il nostro servizio, pur nella precarietà del numero, delle forze e dell’età.
Missionari saveriani e desiani: una storia piena di gratitudine
Quella di Desio è una storia d’amore tra i missionari saveriani ed i cittadini desiani che inizia a scriversi subito dopo la seconda guerra mondiale. I missionari saveriani hanno grande stima di papa Pio XI, considerato grande papa missionario moderno. In 74 anni a Desio tante storie si sono incrociate. Accogliendo i missionari, avete accolto nel vostro cuore il mondo intero. Pregando per i missionari, avete pregato per l’umanità intera. Accompagnando i missionari, avete aperto il vostro cuore a tante persone. Aiutando i missionari avete aiutato il popolo cui siamo inviati in 21 nazioni, sparsi in 4 continenti. L’unico progetto che possiamo, insieme, avere per il futuro, è quello dell’Amore che va oltre le frontiere geografiche, linguistiche, culturali, morali, religiose, ecc. Il grande sogno rimane, perciò, “fare del mondo una sola famiglia”. I saveriani arrivano a Desio il 15 febbraio 1947 e il giorno dopo, mons. Giovanni Bandera annuncia alla popolazione che i Missionari di Parma aprono a Desio. La gente è contenta e ha parole di simpatia. I missionari prestano servizio in Parrocchia confessando tutti i giorni, si impegnano nelle celebrazioni eucaristiche, nella formazione delle comunità cristiane. Quello che caratterizza i missionari, fin dall’inizio, è una ventata di internazionalità, di universalità della Chiesa: dal film (“Alveare”) ai presepi internazionali, dalle mostre ai teatri. L’11 maggio 1977 i Missionari si spostano dalla villa Tittoni all’attuale sede. Nella nuova casa vengono formati i giovani che desiderano consacrare la loro vita per l’annuncio del Vangelo. E quando i missionari saveriani compiono 50 anni a Desio, il Cardinale Martini, arcivescovo di Milano, scrive: “Gli Istituti Missionari, infatti, sono espressione e strumento della missionarietà della Chiesa universale […] Voi Missionari di Desio, vi siete dedicati da tanto tempo e con passione per la formazione alla sensibilità missionaria e nell’animazione della comunità […] e vi auguro quindi di proseguire nella strada intrapresa affinché tutte le nostre parrocchie crescano e assimilino quello stile missionario che caratterizza le autentiche comunità cristiane”. Oggi cosa fanno i missionari saveriani? Prima di parlare del fare, mi sembra opportuno spendere due parole sull’essere missionari. Dio ha posto, gratuitamente, il suo sguardo sul missionario, il quale si sente amato, benedetto, scelto e chiamato. Rispondendo sì alla chiamata del Signore il missionario avrà come compito principale/primordiale la preghiera da cui scaturirà, di conseguenza, lo zelo per condividere con fratelli e sorelle quanto lui stesso si sente amato e desidera che ogni persona faccia la medesima esperienza. Tutto il resto viene in conseguenza della Comunione con Dio e, quindi, con ogni persona soltanto perché è immagine e somiglianza di Dio. Il missionario annuncia quindi il frutto della sua esperienza quotidiana: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt28,20). Anche se vengono meno le forze fisiche ed economiche, la salute, i progetti, l’unica cosa che rimane è l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo inteso come uno straniero/sconosciuto, un carcerato, un malato… Negli ultimi anni ci dedichiamo all’accompagnamento dei gruppi missionari in alcuni decanati della V zona pastorale, nei ministeri vari (celebrazioni eucaristiche e confessioni) a Desio e nei paesi limitrofi, in alcune attività diocesane, nella formazione alla mondialità nelle scuole, nel dialogo interreligioso e interculturale perché gli itinerari che oggi la Chiesa ci propone sono il cammino del dialogo, dello scambio culturale, della promozione delle comunità cristiane di base, del servizio qualificato, all’interno del nostro carisma, alla Chiesa.
Missionari saveriani e desiani: una storia piena di gratitudine
Quella di Desio è una storia d’amore tra i missionari saveriani ed i cittadini desiani che inizia a scriversi subito dopo la seconda guerra mondiale. I missionari saveriani hanno grande stima di papa Pio XI, considerato grande papa missionario moderno. In 74 anni a Desio tante storie si sono incrociate. Accogliendo i missionari, avete accolto nel vostro cuore il mondo intero. Pregando per i missionari, avete pregato per l’umanità intera. Accompagnando i missionari, avete aperto il vostro cuore a tante persone. Aiutando i missionari avete aiutato il popolo cui siamo inviati in 21 nazioni, sparsi in 4 continenti. L’unico progetto che possiamo, insieme, avere per il futuro, è quello dell’Amore che va oltre le frontiere geografiche, linguistiche, culturali, morali, religiose, ecc. Il grande sogno rimane, perciò, “fare del mondo una sola famiglia”.
I saveriani arrivano a Desio il 15 febbraio 1947 e il giorno dopo, mons. Giovanni Bandera annuncia alla popolazione che i Missionari di Parma aprono a Desio. La gente è contenta e ha parole di simpatia. I missionari prestano servizio in Parrocchia confessando tutti i giorni, si impegnano nelle celebrazioni eucaristiche, nella formazione delle comunità cristiane. Quello che caratterizza i missionari, fin dall’inizio, è una ventata di internazionalità, di universalità della Chiesa: dal film (“Alveare”) ai presepi internazionali, dalle mostre ai teatri.
L’11 maggio 1977 i Missionari si spostano dalla villa Tittoni all’attuale sede. Nella nuova casa vengono formati i giovani che desiderano consacrare la loro vita per l’annuncio del Vangelo. E quando i missionari saveriani compiono 50 anni a Desio, il Cardinale Martini, arcivescovo di Milano, scrive: “Gli Istituti Missionari, infatti, sono espressione e strumento della missionarietà della Chiesa universale […] Voi Missionari di Desio, vi siete dedicati da tanto tempo e con passione per la formazione alla sensibilità missionaria e nell’animazione della comunità […] e vi auguro quindi di proseguire nella strada intrapresa affinché tutte le nostre parrocchie crescano e assimilino quello stile missionario che caratterizza le autentiche comunità cristiane”. Oggi cosa fanno i missionari saveriani? Prima di parlare del fare, mi sembra opportuno spendere due parole sull’essere missionari. Dio ha posto, gratuitamente, il suo sguardo sul missionario, il quale si sente amato, benedetto, scelto e chiamato. Rispondendo sì alla chiamata del Signore il missionario avrà come compito principale/primordiale la preghiera da cui scaturirà, di conseguenza, lo zelo per condividere con fratelli e sorelle quanto lui stesso si sente amato e desidera che ogni persona faccia la medesima esperienza. Tutto il resto viene in conseguenza della Comunione con Dio e, quindi, con ogni persona soltanto perché è immagine e somiglianza di Dio. Il missionario annuncia quindi il frutto della sua esperienza quotidiana: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt28,20). Anche se vengono meno le forze fisiche ed economiche, la salute, i progetti, l’unica cosa che rimane è l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo inteso come uno straniero/sconosciuto, un carcerato, un malato… Negli ultimi anni ci dedichiamo all’accompagnamento dei gruppi missionari in alcuni decanati della V zona pastorale, nei ministeri vari (celebrazioni eucaristiche e confessioni) a Desio e nei paesi limitrofi, in alcune attività diocesane, nella formazione alla mondialità nelle scuole, nel dialogo interreligioso e interculturale perché gli itinerari che oggi la Chiesa ci propone sono il cammino del dialogo, dello scambio culturale, della promozione delle comunità cristiane di base, del servizio qualificato, all’interno del nostro carisma, alla Chiesa.
La sera del 6 settembre 2017 abbiamo vissuto in Basilica una serata di preghiera e riflessione nel V anniversario della morte del card. Carlo Maria Martini, organizzata dall’Azione Cattolica, dal significativo titolo “Parole e Vita”. Mons. Giovanni Giudici, già suo Vicario generale e successivamente Vescovo di Pavia, ha portato la preziosa testimonianza che qui riportiamo.
PAROLE E VITA
Nel quinto anniversario della morte del Card. Martini
Un famoso storico della Chiesa narra che quando morì Carlo Borromeo, molti ecclesiastici commentarono il fatto usando questa immagine: “Si è spenta una luce in Israele”. Siamo qui radunati, nella persuasione che la luce che si è accesa per noi, negli anni del ministero di Martini a Milano, ci è stata consegnata, e va conservata viva.
Abbiamo ascoltato le parole del Cardinale, ci sono state ricordate le sue scelte, abbiamo potuto sentire di nuovo brani che fanno presenti a noi lo suo stile di vita. Tutto questo è stato ed è ricchezza per noi. Desideriamo che continui ad esserlo per noi, e per quanti non hanno avuto il dono e la responsabilità di conoscerlo, di ascoltarlo, di accogliere il suo magistero.
Intendo richiamare alcune caratteristiche del magistero del Cardinale, proprio a partire dalla preghiera che abbiamo insieme vissuto ascoltando le parole sue e di altri testimoni.
Il primo aspetto che desidero richiamare, si collega con la scelta di offrire alla Diocesi, nella prima lettera pastorale che ci ha scritto, un invito inatteso. Nella metropoli di Milano, e in buona parte della terra lombarda, per tradizione attiva e impegnata nella produzione di beni e servizi, egli ha scritto: “La dimensione contemplativa della vita”.
Si è trattato dell’inizio di un magistero, ma anche di un ministero, volto a riaffermare il senso, il valore, la fecondità della trascendenza. Pensiamo alla scelta di proporre Ritiri Spirituali a tutto il clero: almeno tre volte ha attuato questa iniziativa.
Ravvivare il senso di Dio, richiamare la possibilità di dialogare con Lui, di avvertirlo come presente e sovranamente attivo nella propria vita, significa insegnare a stare in piedi nel turbine quotidiano di fatti, notizie, mode. Il confrontarsi con Dio consente di comprendere meglio il proprio cammino ed abituarsi a pensare e a credere che il Signore ha un progetto su ciascuno di noi. Chi accetta di aprire il discorso sulla volontà di Dio, che ci attira e che noi scegliamo, privilegia la voce interiore dello Spirito, e la privilegia rispetto alle proprie voglie, e ai propri desideri; chi si propone come fine l’incontrare Dio, diviene una persona capace di voler bene. E la scelta di farsi accompagnare e sostenere dall’amore di Dio rende ricco di significato il lavoro, la propria appartenenza familiare, la propria presenza nella società.
Ecco perché non rinunciò mai a predicare gli Esercizi Spirituali, a raccogliere in ritiro i preti e ogni ordine di credenti, a insistere tanto sulla scelta di sostenere la propria giornata con la Lectio divina serale o mattutina.
Un secondo aspetto che è opportuno richiamare, riguarda lo stile di vita e di rapporti istituzionali e personali che il Cardinale Martini ha vissuto, e per i quali è importante per noi guardarlo come modello.
Come sappiamo, secondo il Vaticano II, la rivelazione di Dio agli uomini non è un contenuto –verità da credere- ma un evento di incontro, di relazione, di comunicazione, di scambio. Dio “nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (Dei Verbum n.2).
Carlo Maria Martini possiamo dire che ha una concezione “relazionale” dell’annuncio. Mostra sempre una grande sensibilità nei confronti delle persone a cui parla: ha il dono di ‘interpretare’ i suoi ascoltatori, le loro attese. Quando presentava la dottrina della Chiesa sembrava proporla comprendendo le ragioni della gente, e la loro difficoltà a credere. Esponeva il pensiero cattolico, il messaggio evangelico, non entrando mai in polemica con nessuno. Non usava mai l’espediente, tanto comune tra noi predicatori, di descrivere il male, gli errori, i limiti della situazione, oppure di prefigurarsi un avversario con cui fare polemica. Allievo della Parola, sapeva bene che non significa nulla l’elencare tutti i lati negativi di una situazione, perchè il seme della Parola è così fecondo da fruttificare in ogni situazione umana.
La Parola di Dio infatti salva per se stessa, tocca i cuori, ne demolisce le chiusure, indebolisce e supera ciò che fa da ostacolo all’incontro con Dio.
Un simile atteggiamento consentiva al Card. Martini di collocarsi in maniera positiva nel difficile e continua discussione, presente nella Chiesa, a riguardo della ‘differenza cristiana’, tema difficile e ragione di continuo travaglio. Per alcuni la novità del cristianesimo è negata tutte le volte che non si afferma in pieno e con ogni mezzo la verità. Per altri occorre ricordare che non c’è una verità cristiana ‘fatta e finita’ da esporre e applicare. Occorre sempre da capo domandarsi quali sono le situazioni e le condizioni di vita nelle quali la Parola evangelica risuona. E dunque ritengono che occorre impegnarsi, con l’aiuto dello Spirito Santo, a rendere accessibile e attraente la verità cristiana nel contesto storico e culturale che va mutando. Si vede il fatto cristiano dal modo con cui una persona esercita la sua professione, vive la vita familiare, sviluppa un impegno sociale. Il Cardinale ha saputo insegnarci che il confronto tra Parola di Dio e cultura del nostro tempo è il modo corretto di rispettare la verità proposta dal Vangelo.
Da ultimo ritengo che il Cardinale Martini insista con noi perché abbiamo ad amare la Chiesa. Questo suo voler bene alla comunità cristiana si è visto nello svolgersi della sua missione tra noi, a cominciare dalle piccole cose, fino alle più grandi. Le piccole: non si porta con sé da Roma, o dalla Compagnia di Gesù, dei collaboratori, ma li sceglie tra i sacerdoti e i laici della nostra Chiesa. Accetta con semplicità il rito ambrosiano, in tutte le sue particolarità. L’ampio giro del turibolo… Accoglie lo stile pastorale milanese, di cui siamo umilmente orgogliosi: una Chiesa di popolo, un laicato intraprendente e attivo, un clero che sta vicino alla gente.
Ci insegna ad amare la Chiesa perché l’ha voluta più obbediente al Signore e al Suo vangelo, ma a partire da quella comunità concretamente esistente, con gli uomini che la governano, i suoi confratelli cardinali e vescovi e preti. Egli, quando ne parlava, sottolineava che la Chiesa non mai stata tanto cattolica come ora, diffusa nei diversi continenti, mai unita come in questi anni, straordinariamente ricca di teologi competenti, e di membri generosi, fino al martirio.
Egli ha amato la Chiesa anche a costo di incomprensioni. Pensiamo alle illazioni e alle critiche per aver proposto un cammino più ‘sinodale’ per la comunità cattolica. Egli parlava di un procedimento di conquista della verità condivisa, in un clima di creatività, di collegialità, di speranza. Dalla stampa laica gli venne attribuito di volere un nuovo Concilio Vaticano III.
Su questa e su altre affermazioni laici e cattolici lo vollero mostrare in dialettica con il Papa. Mai ci fu ombra di critica espressa, sulle sue labbra, per i Pontefici con i quali collaborò. Ma certo ha mostrato un impegno vigoroso per correggere i lati non evangelici della via della nostra comunità, e per introdurre modalità nuove di vita di Chiesa: la lettura della Scrittura perché divenga più familiare ad ogni credente, la formazione dei laici e il rispetto per le loro competenze in campo civico, politico, culturale; l’Azione Cattolica, la collocazione dei movimenti nella vita della comunità, la valorizzazione dei consigli presbiterali e pastorali, la formazione e la vita del clero.
Nell’ultima intervista da lui rilasciata (2012 “L’ultima intervista” a cura di G. Sporschill e F. Radice Confalonieri) all’intervistatore egli rivolge una domanda conclusiva: «Cosa puoi fare tu per la Chiesa?»”. E’ la domanda che questa sera egli rivolge a ciascuno di noi.
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